31 marzo 2014

I Misteri del Grande Fiume

di Paolo Panni




Dal Monviso al mare, 652 chilometri di misteri, leggende, storie e vicende umane che si fondono, ancora una volta, tra loro. Un fiume non solo d’acqua ma di casi talvolta straordinari, che si fanno cultura e rendono l’ambiente del Po unico al mondo. Santi e demoni, draghi e mostri, alieni e fantasmi. Il Po parla di tutto questo. Parla anche di Gesù Cristo, con segni evidenti, e misteriosi del Messia. 



Come accade a Cremona, città direttamente bagnata dal fiume dove, in Cattedrale, si conserva la Sacra Spina che era parte integrante della corona di spine che fu conficcata nella testa del Cristo il giorno della Crocifissione. E’ lunga 7 centimetri e ogni anno viene portata, in devota processione il Venerdì Santo. Attenzione a quello che potrebbe accadere tra un paio d’anni. Si dice infatti che, nelle Sacre Spine (altre si trovano conservate in Italia), le tracce ematiche acquistino un colore rosso vivo, come si trattasse di sangue appena versato, quando il 25 marzo, giorno in cui si celebra l’Annunciazione di Gesù, coincide con il Venerdì Santo. E il 25 marzo 2016 sarà esattamente il Venerdì Santo. Si ripeterà il fatto prodigioso già accaduto nel 2005? In attesa di saperlo non si esauriscono certo qui le tracce di Gesù lungo il corso del Po. Nella non distante Mantova, all’interno della concattedrale di Sant’Andrea sono gelosamente custoditi i vasi col sangue di Cristo. Una reliquia dal valore inestimabile portata nientemeno che dal centurione Longino che aveva trafitto il costato del Salvatore con la lancia. Mentre più a valle, la chiesa di Santa Maria in Vado (sorta dove sorgeva il guado dell’omonimo affluente del Po) è nota per il celebre miracolo eucaristico avvenuto il 28 marzo 1171. Era il giorno di Pasqua e mentre il priore Pietro da Verona, assistito da due canonici, celebrava la messa, durante il momento solenne della consacrazione, l’ostia si tramutò in carne iniziando a perdere sangue, che andò addirittura a macchiare il soffitto E, ancora, tracce del Messia, risalendo “controcorrente” si trovano, ad una distanza di alcuni chilometri dal Po, a Cavacurta, nella chiesa di San Bartolomeo. All’altezza di un pilastro spicca nientemeno che l’impronta di Gesù Cristo. Si tratterebbe di un calco portato, dalla Terra Santa, come ex voto, da un crociato del paese. 




Meno conosciuta, ma di grande fascino, una vicenda parmense. A Busseto, cittadina celebre per essere la patria di Giuseppe Verdi, si conserva, un eccezionale simulacro del Cristo morto. E’ in cuoio, un materiale che, al tatto, fa sembrare quella statua di vera pelle. Incredibile la storia che l’accompagna. A portarla è stato infatti il Po: da dove non si è mai saputo. Sembra che il fiume se la sia “presa” nel XV secolo, dopo un’alluvione disastrosa, distruggendo una chiesa situata sulla riva lombarda. Fatto sta che l’antico simulacro fu ritrovato in riva al Po, nei pressi di Polesine Parmense, e dopo svariate contese rimase a Busseto, dove è tuttora situato, nella chiesa di S.Maria Annunziata. 
Si dice che molti anni fa, dopo una processione del Giovedì Santo, il Cristo fu lasciato per una notte nella vicina collegiata. Il mattino successivo, alla riapertura della chiesa, i presenti non vedendolo pensarono al furto. Fu invece ritrovato nella collocazione originaria, in S.Maria. Come poteva esserci arrivato se la collegiata, di notte, era rimasta chiusa e non vi erano segni di scasso? Da sempre si pensa che abbia compiuto, da solo, il prodigioso ritorno. Da evidenziare, tra l’altro, che barba e capelli del Cristo sono veri: si tratterebbe dell’ex voto di una donna che, per grazia ricevuta, donò proprio i suoi capelli. 
Misteri eccezionali, ma non certo gli unici, che rendono il bacino del Po straordinario. Il Grande fiume, nel corso della storia, ha attirato frotte di giornalisti, scrittori e poeti. In tantissimi hanno parlato e scritto di lui. Dopo aver messo in luce queste vicende direttamente legate al Figlio di Dio, vi accompagniamo alla scoperta di alcuni dei più interessanti misteri che si celano lungo il fiume. Per raccontarli tutti occorrerebbe un libro (a proposito, per approfondimenti si consiglia il volume “Il Grande fiume Po” di Guido Conti, edizioni Mondadori) e così ecco, per questa volta, un rapido viaggio, dal Monviso al delta, dandovi appuntamento a successivi approfondimenti. A Crissolo, a poca distanza dalle sorgenti, spicca la splendida Grotta di Rio Martino, nota fin dalla preistoria. Nel Medioevo la si riteneva abitata da spiriti maligni ed esseri infernali capaci, coi loro malefici riti, di far muovere le montagne. Ci volle un esorcismo dei Padri Gesuiti per far cessare quegli accadimenti. All’Abbazia di Staffarda, scrigno di numerosi reperti archeologici, ecco invece l’osso di un gigantesco pesce ritrovato sulle sponde del Po, mentre al santuario della Madonna del Pilone di Torino resta vivissima la memoria di un evento prodigioso datato 29 aprile 1644 quando la Vergine apparve sul Po in piena salvando la vita di una ragazzina che, poco prima, era caduta in acqua. E, spostandosi velocemente verso valle, mentre nel Piacentino storie di fantasmi scuotono la quiete di Arena Po, Calendasco, Monticelli d’Ongina e Castelvetro, nel Lodigiano non manca di affascinare la celebre vicenda del Lago Gerundo e del drago Tarantasio. Meno nota, ma inquietante, la vicenda dei “Morti della Porcara” a Mezzano Passone di Sopra dove una cappellina testimonia, ancora oggi, la presenza di un vecchio cimitero in cui, oltre ai locali, riposavano, i morti di peste e i soldati iberici e ungheresi uccisi in combattimento. Le ossa furono ritrovate, casualmente, da un gruppo di maiali al pascolo. Da qui il nome “I morti della Porcara”. In questo luogo accaddero numerosi eventi miracolosi documentati anche dal parroco dell’epoca. Di nuovo sulla riva opposta, a Piacenza, nota è la vicenda del miracolo del santo vescovo Savino che fece incredibilmente tornare le acque del Po nel loro alveo durante una alluvione. Se ne parla anche nei Dialoghi di Gregorio Magno. 





E, a proposito di miracoli, che dire della chiesetta della “Madonnina del Po” di Polesine Parmense dove si venera un’antica immagine della Madonna di Loreto. Ogni volta che il Po fuoriesce dall’argine di frontiera l’acqua si ferma sempre ai piedi della Vergine. Sulla riva opposta, nella già citata Cremona, il Duomo ed il celebre Torrazzo sono un vero e proprio scrigno di misteri, come quello dell’affresco dell’Ultima Cena in cui, più ancora che nella celebre opera di Leonardo custodita a Milano, San Giovanni ha più che mai sembianze femminili. La stessa cosa accade in dipinti simili custoditi in San Sigismondo e nella parrocchiale della vicina San Giuliano Piacentino. E, ancora parlando del Duomo di Cremona, un occhio vigile non può non scorgere le scritte incise sui muri esterni del Battistero. Sarebbero quelle lasciate, nei secoli passati, dai condannati a morte. Ma il cremonese è anche terra di avvistamenti “non identificati”. Celebri quelli avvenuti direttamente sulle rive del Po nel 1967 (quando un giovane, assieme ai genitori, asserì di aver scorto a ridosso del Po un oggetto luminoso che emanava un forte calore e attorno al quale si muovevano alcune basse figure che parlavano una lingua incomprensibile) e nel 1972 (in questo caso fu un cacciatore che riferì di aver visto alcuni umanoidi ritrovando poi, a ridosso del fiume, strani frammenti metallici, sterpi pressati, sabbia vetrificata e addirittura oggetti radioattivi). 



Mentre a San Daniele Po, tra i tesori del Museo Paleoantropologico del Po, si trova uno dei massimi e più misteriosi ritrovamenti della Pianura Padana. Il resto di un frammento cranico di Neanderthal rinvenuto casualmente, pochi anni fa, da un giornalista durante una gita sul fiume. Mentre spostandosi a Casalmaggiore ecco, nel santuario della Madonna della Fontana, la tomba di Francesco Mazzola, in arte il Parmigianino, la cui morte, avvenuta in giovane età, fu collegata alla follia alchemica che lo aveva posseduto. 



Proseguendo verso valle, sosta d’obbligo all’Abbazia di San Benedetto in Polirone di San Benedetto Po dove, come in numerosi altri monasteri medievali, il sacro e il profano, Cristo e i demoni convivono nel medesimo spazio. C’è, per esempio, un dipinto dell’Assunta in cui è rappresentata una guerra con i diavoli annientati dagli angeli, con i demoni draghi che vengono spediti all’inferno. E, nel coro ligneo, sugli scranni dove si portavano i monaci in preghiera, spiccano teste di demoni, di arpie e di sfingi. A Governolo invece è passata alla storia la vicenda della “pietra delle paludi” ritrovata da un giovane che guarì prodigiosamente dalla febbre. Sarebbe stata donata da una strega ad un uomo che voleva accertarsi della fedeltà della moglie e che poi venne fatto affogare tra le acque del Mincio e del Po, colpevole di aver deriso la vecchia strega. La pietra, che causò poi alcune disavventure al pescatore che l’aveva ritrovata, fu quindi rigettata nel Po causando un incredibile moria di pesci. Moria che ebbe fine solo dopo una novena di preghiere grazie alle quali le acque furono ripulite da demoni e dannazioni. Dirigendosi rapidamente al delta, ecco Crespino, il luogo dove, secondo la leggenda, sarebbe caduto, tra le acque del Po, Fetonte, uno dei più popolari personaggi della mitologia greca. Le sue sorelle, secondo quanto tramanda la leggenda, piansero lacrime così abbondanti da impietosire gli dei che le trasformarono in pioppi. Mentre tra Ro Ferrarese, Budrio, Cologna, Polesella, Roncala, Frassinelle, Pincara, Chiesa e Ro è da anni che fa parlare la vicenda di una strana e grande creatura, definita Homo Saurus dallo studioso Sebastiano Di Gennaro (che alla questione ha anche dedicato un libro). Un extraterrestre, un rettiliano, un mostro o un semplice frutto della fantasia? Un interrogativo che continua ad affascinare e non smette di rendere incantevole il mondo del Grande fiume. 




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L’articolo di Paolo Panni è stato pubblicato sul numero 10 di Febbraio 2014 della rivista “Mistero”. Protetto da Copyright, viene pubblicato su questo blog per gentile concessione della redazione di “Mistero”, e degli amici Simona Gonzi e Ade Capone.




20 marzo 2014

MISTERIOSI SIMBOLI NEL CASTELLO DI SPETTINE


di Paolo Panni




E’ noto che, quando si torna in più occasioni, e quindi anche in diversi momenti, in uno stesso luogo, si notano particolari, curiosità e peculiarità che le volte precedenti non si erano osservate. Una considerazione, questa, che è senz’altro valida per chi compie ricerche, studi ed approfondimenti nel vasto e sterminato campo del mistero.

Trascorso ormai l’inverno, il sottoscritto scrivente è tornato a visitare l’antico fortilizio di Spettine, borgo situato nel territorio comunale di Bettola, in provincia di Piacenza. Un maniero completamente abbandonato, e di assoluto fascino, al quale l’associazione Emilia Misteriosa ha già dedicato ampio spazio.
La visita è stata condotta insieme all’amico Stefano Panizza, studioso parmense da anni impegnato a “indagare” e ad approfondire tematiche legate al magico, affascinante mondo del mistero. Se per il sottoscritto l’antico edificio non rappresenta più una novità (ma ogni volta è un piacere poter trascorrere qualche ora in questo angolo della Valnure), per Panizza si è trattato della prima visita. E, a proposito di novità, facendo riferimento alla considerazione con cui si è aperto questo reportage, occorre dire che le sorprese non sono certo mancate.
E’ bene fare, innanzitutto, qualche considerazione di carattere generale, giusto per “rispolverare” la storia del luogo.
Come già più volte sottolineato sono poche le notizie riguardanti questo complesso fortificato, posto a controllo di una delle strade di montagna che collegano le valli Nure e Trebbia. Il complesso trae origine, quasi certamente, da una primitiva casa-torre, forse di fondazione trecentesca (ma c’è anche chi sostiene che i primi cenni storici risalirebbero addirittura all’anno mille) a cui, nel corso dei secoli, specie tra Cinquecento e Seicento, si sono aggiunti gli altri edifici circostanti. Oltre alla sala cosiddetta della giustizia, posta al piano terra, spiccano alla base del complesso, i locali che erano destinati a prigioni: c’è quella maschile e c’è quella femminile. 


Quest’ultima si distingue per la presenza di una seduta (o “comoda”) per i bisogni corporali, ma anche per la presenza di antiche staffe in legno e appigli in ferro, ai quali le donne venivano legate e, con ogni probabilità, brutalmente torturate. In alcune parti di muro si riconoscerebbero anche macchie di sangue. Una prigione, questa che, più ancora che quella maschile, incute una profonda inquietudine una volta che vi si è entrati. Io stesso, avendo più volte visitato il luogo, ho potuto constatare lo sbigottimento, ma anche lo sconvolgimento e l’inquietudine delle persone che erano con me, una volta entrate in quel luogo. Luogo di tristezza, luogo di dolore, luogo di memoria. Che racconta, ancora oggi, le violenze ed i soprusi di un tempo.

E’ giusto ricordare che il primo possesso del castello fu senz’alto della nobile famiglia che dalla località prese il nome: i Da Spettine che annoverarono personaggi di rilievo nell’ambito piacentino in epoca comunale. Nell’anno 1396 il duca Gian Galeazzo Visconti diede procura ad Antolino de Angusolis, podestà di Pavia, affinchè comprasse a suo nome il castello di Spettine. Il fortilizio fu assediato nell'aprile del 1440 dal conte Giovanni Anguissola e dai suoi seguaci che provocarono gravi danni alla Val Nure. In seguito il feudo di Spettine, unitamente a quelli di Macerato, Pradovera e Montebarro, passò agli Anguissola i quali ne vennero privati nel 1462 da Francesco Sforza, duca di Milano per avere Onofrio Anguissola, in quello stesso anno, capeggiato una sollevazione di contadini. Dopo l’omicidio dell’Anguissola, avvenuto nel castello di Binasco presso Milano dopo molti anni di prigionia, il duca investì di quei beni il suo camerario, Gian Francesco Attendolo. Ai primi del Cinquecento il conte Gian Ludovico Caracciolo ottenne dal re di Francia conferma della sua signoria su varie località della Val Trebbia e Val Perino e su metà del feudo di Spettine; la restante parte competeva invece al conte Francesco Maria Anguissola.
Fra le componenti di maggior interesse, e più ricchi di mistero, del castello, spicca l’ampio locale posto al piano alto, all’altezza del torrione, in cui si possono osservare diversi, interessanti simboli. 





Ci sono innanzitutto incisioni nei muri (sia tratteggiate che a forma di X), che sono il segno evidente del modo che i prigionieri avevano per contare il trascorrere del tempo. 





Ma ci sono anche delle strane croci,che vedrebbero la classica T “fondersi” con una Y. Di cosa si tratta? Da accertamenti eseguiti, l’ipotesi più accreditata e probabile vuole che quei simboli siano raffigurazioni di balestre, quindi di antiche armi da lancio. A questo riguardo va ricordato che balestre si trovano spesso incise su pareti di chiese medievali, ma anche di castelli. In molti casi hanno un significato apotropaico, vale a dire con la funzione “magica” di annullare o allontanare un’influenza maligna. Che sia così anche per queste balestre disegnate nel fortilizio di Spettine? Le hanno quindi disegnate i prigionieri? Rappresentano quindi un incitamento alla battaglia o hanno appunto voluto allontanare possibili influenze maligne? Perché, va aggiunto, rinchiudere prigionieri proprio nella parte più alta del maniero e, quindi, in quella da dove più facilmente si potevano osservare i passaggi e gli scambi fra le valli Nure e Trebbia? Per quanto tempo i prigionieri sono rimasti chiusi lì? Si trattava quasi sicuramente di soldati. 



Ma il mistero legato al locale più alto, quello posto sulla sommità del mastio, non si esaurisce qui. Infatti su ogni parete dell’androne, nella parte alta, sono incise, in maniera tanto evidente quanto semplice, due croci. Incise, per altro, talmente in alto che nessuna persona avrebbe potuto arrivare fino a quel punto da sola. Che significato hanno? Perché due, e rigorosamente due, per ogni parete? Risalgono sempre all’epoca dei prigionieri oppure sono di altri periodi storici? Perché inciderle così in alto? Sono forse state volute in opposizione a simboli satanici presenti soprattutto in un locale posto al piano inferiore? In questo caso sono simboli quindi di un esorcismo? Per la loro stilizzata conformazione, di comune croce latina, non sembrano essere affatto i segni di riconoscimento di qualche remota corporazione. Potrebbero tuttavia celare possibili arcani messaggi. Ed i quesiti quindi si moltiplicano. Tutte domande, queste, che al momento non sembrano trovare risposte capaci di dipanare il mistero: anzi lo rendono ancora più fitto e suggestivo.



FONTI SITOGRAFICHE

www.altavaltrebbia.net/castelli/val-nure/2166-castello-di-spettine.html‎

www.esplora.piaseinza.com

http://www.comune.bettola.pc.it/

http://www.mondimedievali.net/

http://it.wikipedia.org/

www.treccani.it


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19 marzo 2014

STRANEZZE NORMALI DI UNA NATURA CHE NON CI APPARTIENE PIU' PERCHE' NON RIUSCIAMO A CAPIRLA


di Germano Meletti






Il pianeta Terra, da sempre nostra abitazione in comunità con tantissime altre speci animali, a cui apparteniamo, e vegetali, unici due tipi di vita presenti. Gli animali ci lanciano segnali che quasi mai riusciamo a cogliere, "prevedono" terremoti o forti temporali ed anche altri piccoli segni che comprendiamo solo dopo e confrontando con le abitudini comportamenti apparentemente inspiegabili.
Forse anche l'uomo aveva le stesse percezioni, perdute con il tempo, non sfruttandole più. Un esempio che rende l'idea è il seguente: qualche decennio fa tutti facevamo i conti con la penna, dalle operazioni più semplici a quelle più complesse o addirittura a mente. Con l'avvento delle calcolatrici elettroniche tascabili, o quelle più consistenti da scrivania, la nostra capacità di fare i conti a mente o con la penna è così andata a farsi friggere ed anche il 2+2 che è uguale a 4 ce lo dobbiamo far dire da quelle scatoline, dapprima esclusivamente adibite all'uopo e poi inserite in telefonini che ormai interpelliamo per qualunque cosa, anche le più semplici.
Parlando dell'intenzione di scrivere questo pezzo all'amico Paolo Panni, amante della sua "Bassa" e sopratutto del Po, di cui ne è profondo conoscitore come tutte le persone che vivono nei suoi paraggi, mi ha fatto un esempio, dicendomi: "Se tu guardi attentamente le lumache che vivono nei boschi vicino al Po, ogni qualvolta sta per arrivare una piena, esse si ritirano salendo lungo i tronchi degli alberi e saliranno quel tanto che basta per sovrastare la massima ondata di piena di una cinquantina di centimetri, che arriverà solo alcune ore dopo aver concluso la loro scalata".
Adesso vi voglio parlare del mio cane, si chiama Birillo, a chi mi chiede il suo nome rispondo scherzosamente Meletti Birillo. Egli mi accompagna sempre, siamo ormai in simbiosi, mi piace anche raccontare che si tratta di un trovatello, probabilmente "lanciato" al di là della siepe che delimita l'autostrada in prossimità di Castione Marchesi, come un oggetto divenuto ingombrante dopo essere stato usato come un giocattolo, mi accompagna ovunque da quattro anni; quando lo raccolsi aveva poco più di un anno. Qualcuno mi ha detto trattarsi di un Biscon Frisè, razza della quale mai avevo sentito parlare prima. Naturalmente non era provvisto di microchip, quindi era evidente l'intenzione di disfarsene. Questo cane mi sta dando soddisfazioni incredibili, è di grandissima compagnia e mi accompagna ovunque, anche al supermercato, come potete vedere da una delle due foto e non disturba assolutamente.
Birillo, o se preferite Meletti Birillo, ha avuto due comportamenti impensabili per un uomo. Ieri pomeriggio mi sono recato a Busseto, da mia suocera, per qualche tempo avrà bisogno di qualcuno che le stia vicino per il decorso di una normale malattia per la quale è stata ricoverata in ospedale una quindicina di giorni fa, per questa assistenza ho lasciato là mio figlio Lorenzo. Al momento del congedo da mia suocera e mio figlio ho chiamato il cane, mi segue sempre, mai non ha risposto alla mia chiamata. Ieri non c'è stato di verso: ha voluto stranamente rimanere là. Intorno alle 18 mia suocera si è sentita male conseguentemente a difficoltà respiratorie e cardiache, la cosa era seria, tanto che si è dovuta chiamare l'ambulanza per il ricovero in ospedale. Birillo aveva percepito il precario stato di salute di mia suocera con quattro o cinque ore di anticipo volendole così stare vicino.
Due anni fa, era la notte del 20 giugno 2012, stavo portando a letto mio papà, aveva da qualche mese forti disturbi cognitivi e difficoltà di equilibrio, portai a termine l'operazione che affrontavamo ogni sera. Ad operazione ultimata esco dalla camera, Birillo salta sul letto e non ne vuole sapere di seguirmi, neppure dopo le mie insistenze, cerco di prenderlo affettuosamente in braccio per portarlo fuori, lui addirittura mi ringhia, seppur senza ulteriori strascichi, cosa mai successa prima; non senza fatica riesco comunque a farlo uscire. La mattina seguente, dopo una notte piuttosto agitata da parte di mio papà, ci rendiamo conto che era spirato nel sonno da pochi minuti: Birillo ce lo aveva predetto, ma noi non abbiamo saputo capirlo.
Quante volte abbiamo sentito dire che le mucche sentono con largo anticipo scosse di terremoto e manifestano questa percezione con forti e lunghi muggiti di massa.
Parliamo di viaggi interplanetari per conoscere i pianeti a noi più vicini, fantasticando anche su visite esplorative a stelle distanti anni luce, ma non sarebbe più opportuno conoscere a fondo la natura che ci circonda cogliendone i segnali premonitori? Faremmo qualche esplorazione spaziale in meno, ma forse salveremmo qualche vita in più, e non sarebbe poco.

17 marzo 2014

LA TRAGEDIA DEL PIROSCAFO ORIA: QUANTI E QUALI CADUTI EMILIANI?


di Paolo Panni





Ricorre in questi giorni il 70esimo anniversario del naufragio del piroscafo Oria. Una delle sciagure più grandi di tutti i tempi, ma di fatto anche la “tomba dimenticata” di più di 4mila soldati italiani. Si tratta, infatti, di una sciagura poco conosciuta, nonostante le sue incredibili e pesanti conseguenze. Tra i soldati italiani che persero drammaticamente la vita in quel maledetto 12 febbraio 1944 c’erano anche diversi emiliani: 


Ettore Bacci

Iago Sgarbi
Leopoldo Mori










Ettore Bacci, nato il 26 aprile 1922 a Castel San Giovanni (Piacenza); Leopoldo Mori, nato il 26 maggio 1920 a Cortemaggiore (Piacenza) e a lungo residente e Sorbolo (Parma); Aldo Rainieri, nato a San Secondo Parmense (e per anni residente a Fontanelle di Roccabianca) il 20 luglio 1914; Roberto Reverberi, nato il 5 novembre 1916 a Montecchio Emilia (Reggio Emilia) e Iago Sgarbi, nato il 7 luglio 1914 a Rolo (Reggio Emilia). Ma di tante altre vittime di quella tragedia non si conoscono, ad oggi, nomi e cognomi.
E questo è il mistero maggiore, quello più inquietante. Ed anche più triste.
Emilia Misteriosa,con l’aiuto dei suoi lettori, e delle capacità quindi che può avere il web, spera di poter risalire anche agli altri soldati emiliani che persero la vita in quella sciagura. Per questo facciamo appello alla collaborazione a all’attenzione di tutti.




Oggi ci soffermiamo sulla figura di Aldo Rainieri, nato a San Secondo Parmense (e per anni residente a Fontanelle di Roccabianca) il 20 luglio 1914. Di lui abbiamo potuto raccogliere le maggiori notizie.
Lasciò, all’età di 29 anni, la moglie Bruna Gotti e il figlio, Francesco, che non aveva ancora 10 anni. La vedova, scomparsa nel 1997 a Cantù, si è di fatto spenta senza mai conoscere il reale destino del marito. A maggior dimostrazione del fatto, dunque, di una tragedia di cui si è sempre parlato ben poco. Ancora oggi, sia nel cimitero di Fontanelle di Roccabianca (dove riposano il padre e i fratelli di Aldo Rainieri) su un muro si trova la lapide in cui Rainieri viene dato per disperso; stessa cosa a Cantù. Viene inoltre ricordato sul monumento ai caduti di Fontanelle, dove ha sempre vissuto e dove lavorava come meccanico. La verità sul suo destino, negli ultimi mesi, è emersa in tutta la sua drammaticità. La nave norvegese di 2000 tonnellate, varata nel 1920, requisita dai tedeschi, salpò l'11 febbraio 1944 da Rodi alle 17,40 per il Pireo. A bordo si trovavano più di 4000 prigionieri italiani che si erano rifiutati di aderire al nazismo o alla Rsi dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, 90 tedeschi di guardia o di passaggio e l'equipaggio norvegese. 




Il giorno seguente, il 12 febbraio, colto da una tempesta, il piroscafo affondò presso Capo Sounion, a 25 miglia dalla destinazione finale, dopo essersi incagliato nei bassi fondali prospicienti l'isola di Patroklos. I soccorsi, fortemente ostacolati dalle pessime condizioni meteo, consentirono di salvare appena 37 italiani, 6 tedeschi, un greco, 5 uomini dell’equipaggio, incluso il comandante Bearne Rasmussen e il primo ufficiale di macchina.
L’Oria era stipata all’inverosimile, aveva anche un carico di bidoni di olio minerale e gomme da camion oltre ai nostri soldati che dovevano essere trasferiti come forza lavoro nei lager del Terzo Reich. Su quella carretta del mare, che all’inizio della guerra faceva rotta col Nord Africa, come si ricorda anche sul sito piroscafooria.it e come riportano le memorie, gli italiani in divisa che dissero no a Hitler e Mussolini vennero trattati peggio degli ignavi danteschi nella palude dello Stige: non erano prigionieri di guerra, di conseguenza senza i benefici della Convenzione di Ginevra e dell'assistenza della Croce Rossa. Allo stesso tempo, poi, il loro sacrificio fu ignorato per decenni anche in patria. 




Nel 1955 il relitto fu smembrato dai palombari greci per recuperare il ferro, mentre i cadaveri di circa 250 naufraghi, trascinati sulla costa dal fortunale e sepolti in fosse comuni, furono traslati, in seguito, nei piccoli cimiteri dei paesi della costa pugliese e, successivamente, nel Sacrario dei caduti d’Oltremare di Bari. I resti di tutti gli altri sono ancora là sotto, in quella che può appunto essere denominata una <tomba dimenticata>. Tra loro c’è anche un altro parmense, il sorbolese Leopoldo Mori. La tragedia è stata ignorata per molti decenni. Questo nonostante si sapessero, per filo e per segno, come fossero andate le cose, grazie alle testimonianze dei sopravvissuti. In questi mesi, Francesco Rainieri, figlio di Aldo, ha compiuto numerose ricerche e ha consegnato i risultati di quanto raccolto ai parenti che ancora vivono nella Bassa, specie nella zona di San Secondo, Fontanelle e Carzeto. Tra questi il dottor Enore Gotti, di San Secondo, stimatissimo ginecologo locale (ora in pensione), fratello di Bruna Gotti e, quindi, cognato di Aldo Rainieri. Commosso, il dottor Gotti, osserva e legge le documentazioni che sono ora in suo possesso. “Dal ministero della guerra – racconta il dottor Gotti – mia sorella ha sempre saputo Aldo era considerato disperso. Ha sempre vissuto con questa consapevolezza, senza mai sapere la verità. E forse – confida – è meglio così perché è morto in una maniera davvero agghiacciante. Bruna, che ha sempre sofferto molto la mancanza del marito, se lo avesse saputo, ci sarebbe stata malissimo”. Il dottor Gotti, ancora oggi, quando legge le pagine di cui è entrato in possesso, si commuove. Aldo Rainieri, aveva quattro fratelli (Pietro, Gino, Bruno ed Egidio) e tre sorelle (Gina, Nelda e Maria), tutti da tempo scomparsi. “Nessuno di loro – conferma il cognato – ha mai saputo nulla. Aldo, per tutti loro, è sempre stato un disperso di guerra”. E quanto gli si chiede del suo personale rapporto col cognato, il dottor Gotti ancora si emoziona. “Aldo – dice – mi voleva bene come se fossi stato suo figlio. Mi aveva comprato la bicicletta, cosa che non aveva fatto nemmeno per suo figlio Francesco che ha quattro anni in meno del sottoscritto. Inoltre quando seppe della mia volontà di andare avanti negli studi, sapendo che la mia famiglia non aveva la possibilità di sostenerli, mi aiutò direttamente. Era una persona di grande bontà e generosità – prosegue – un amante della musica lirica”. Nel 1943 fu richiamato alle armi e anche quello fu un triste scherzo del destino. “Infatti – racconta il dottor Gotti – aveva la possibilità di restare a casa, dal momento che era l’unico figlio che aiutava suo padre Vittorio. Ma i documenti che attestavano questo arrivarono in ritardo e così dovette partire. Lo fece con grande tristezza; ricordo molto bene il giorno in cui salì sulla corriera. Poco prima ci abbracciammo e quello fu il nostro ultimo contatto. Lui – evidenzia – ha sempre odiato la guerra, la vedeva come un male. Lui poi, che era così buono, non avrebbe mai fatto del male a nessuno. E oggi – conclude – quando penso al tipo di morte a cui è andato incontro penso all’atrocità della cosa>. Nel 2008 il Comune di San Secondo Parmense ha conferito al dottor Gotti il Premio San Secondo, benemerenza che si è meritato per il suo servizio prestato per molti anni alla gente della Bassa. “Da subito – ricorda – lo ho dedicato a mio cognato, Aldo Rainieri”.





Settant’anni dopo la tragedia del piroscafo Oria è stata commemorata in terra greca. Al chilometro 60 della strada statale Atene-Sunio di fronte all’isolotto di Patroklos, luogo dove avvenne il naufragio il 12 febbraio del 1944, è stato inaugurato il Monumento dedicato ai Caduti del piroscafo Oria. 


La commemorazione è stata officiata dal Reverendo Nikolaos Foscolos, arcivescovo  Cattolico di Atene. Una rappresentanza dell’Ambasciata d’Italia in Atene e dei nostri militari in servizio in Grecia ha partecipato all’inaugurazione del monumento.
I Caduti, va ribadito, erano tra coloro che non aderirono al nazismo e alla Repubblica Sociale Italiana dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e provenivamo dai campi di internamento di Rodi. Prigionieri, diretti verso i campi di concentramento in Germania, come tanti altri militari che subirono la stessa sorte. 


Il monumento è stato presentato durante la cerimonia dal sindaco di Saronicco Petros Filippou e realizzato grazie all’interesse dei familiari dei caduti che coordinati da Michele Ghirardelli, nipote di uno dei dispersi, si sono ritrovati in anni recenti grazie ad internet e sin dal 2006 hanno promosso iniziative in collaborazione con diversi Comuni italiani verso le autorità nazionali e greche per riportare al vivo della memoria un evento che rappresenta una delle più grandi tragedie del mare Mediterraneo e della storia delle nostre Forze Armate. Gli abitanti di Saronicco, furono coloro che subito diedero assistenza ai pochi naufraghi che si salvarono e raccolsero nei  giorni successivi e nei mesi successivi le salme dei poveri sventurati che si depositavano sulle spiagge e sugli scogli limitrofi, dandogli una pietosa ma dignitosa sepoltura in fosse comuni li vicino. Particolari, questi, confermati anche da una donna che all’epoca aveva 7 anni. La tragedia ha lasciato un segno profondo nello spirito della comunità greca locale che perdura nel tempo e rappresenta un esempio encomiabile di spontanea umana pietà, anche verso chi sino a quel momento era considerato un nemico ed un occupante. Per molti anni i locali non pescarono più e non si bagnarono più nelle acque della tragedia per rispetto ai Caduti. Solo le nuove generazioni ricominciarono tali usi solo anni più tardi. 




Nel pomeriggio è stato inoltre presentato nel vicino comune di Keratea la traduzione in greco del libro monologo di Paolo Ciampi <La gavetta in fondo al mare>, ispirato alle gavette portate alla luce dai sub greci coordinati da Aristotelis Zervoudis  che per primo ritrovò i resti del Piroscafo e riportò alla luce diverse gavette dei soldati su alcune delle quali era inciso <Mamma ritornerò>, attivandosi per ricercare i familiari dei Caduti. Il luogo del naufragio è considerato, secondo la convezione dell’Unesco, Sacrario del Mare, custode dei resti mortali di chi è ivi sepolto e riposa. Nei Sacrari del Mare presenti nei mari della Grecia riposano circa 15mila soldati italiani per affondamento di navi. Di molte di queste, ancora non sono stati ritrovati elenchi delle persone imbarcate, qualora esistenti.

EMILIA MISTERIOSA, SOPRATTUTTO CON L’AIUTO DELLA RETE E DEI SUOI LETTORI, SI AUGURA DI POTER DARE UN NOME E UN COGNOME AI TANTI CHE SI TROVANO IN QUELLE “TOMBE DIMENTICATE”



FONTI SITOGRAFICHE E FOTOGRAFICHE


Archivio privato Enore Gotti e Francesco Rainieri
www.piroscafooria.it
it.wikipedia.org
www.difesa.it.


SI RINGRAZIANO I SIGNORI FRANCESCO RAINIERI ED ENORE GOTTI PER LA PREZIOSA COLLABORAZIONE.



SI PREGA DI SEGNALARE EVENTUALI COPYRIGHT NEI TESTI E NELLE IMMAGINI AI FINI DI UNA LORO CANCELLAZIONE O MODIFICA

14 marzo 2014

L’infelice amore di Vittoria Terzi


di Silvia Ragazzini Martelli



 Foto di Luigi Briselli 
Immagine di copertina del volume Una Rocca Senza Tempo - Edizioni Fantigrafica



Ho consultato vari volumi di storiografia sissese. Qualcuno più strettamente storico, qualche altro più personale e nostalgico. Anch’io ho affrontato, in maniera forse più letteraria e didascalica che storica, alcune ricerche. Di altri libri ho curato la prefazione. Potrei affermare, con quasi certezza, che tutti i volumi che mi sono passati tra le mani, tutti i tentativi di indagine storiografica più o meno riusciti, racchiudono preziose notizie, non disgiunte però- neppur io mi sottraggo- da possibili e per nulla scandalose imperfezioni che, del resto, ho sempre riscontrato in quasi tutti i libri letti, anche in quelli di Autori più noti e più coronati di lauro. Nessuno è perfetto ed” errare humanum est “. E’ successo a tutti, prima o poi. Si tratta dei famosi refusi, che gli studiosi, gli editori, i giornalisti e gli scrittori conoscono e sui quali, addirittura, scherzano o scrivono altri volumi, naturalmente non scevri da nuovi refusi. Ebbene, su alcune notizie storiche si potrebbe sgarrare, chi più, chi meno, anche se, naturalmente, si cerca il più possibile che ciò non avvenga. Fatta questa debita premessa, che suona come “…non si è fatto apposta” o “non si farà apposta…”, voglio prevenire anche un’altra possibile critica, alla quale sicuramente mi esporrò. Non risulta che a Sissa siano mai stati pubblicati articoli o ricerche su fatti estremamente misteriosi o al limite del normale, cioè nella sfera del paranormale. Tranne forse in qualche occasione, non credo si sia mai riportato di strane presenze, di ombre, di plasma, di spiriti, di lamenti o di gemiti. Solo in alcuni volumi da me consultati, a partire da” Castelli del Parmense” di Augusta Ghidiglia Quintavalle e da “Sissa” di Alberto Bacchini, è riportata ,senza voler per forza cadere nel paranormale, la storia inquieta e dolorosa di Vittoria Terzi e di Morello da Parma, familiare di Galeazzo Maria Sforza e vassallo dei Terzi ,quindi, di rango inferiore. Fu riportata questa notizia, leggendaria ,ma su basi storiche, anche dagli Architetti Carlo Dusi, Laura Balboni, Paolo Corradini ,curatori della breve sezione didascalica dell’ultimo volume edito sulla Rocca e coordinati dagli Architetti Paolo Bonoli e Maria Margherita Storci .Il libro fu da me introdotto, allora, in veste di Assessore alla cultura, al fine di cercare di focalizzare l’attenzione sullo stato di inagibilità e di degrado in cui si trovava e tuttora si trova la Rocca di Sissa, ormai Sissa Trecasali, dopo le ultime scosse di terremoto, che la resero inagibile. Ciò avvenne poco prima della fusione storica dei due Comuni della Bassa Parmense. Si tratta del volume “Una Rocca senza tempo”, importante soprattutto per le immagini fotografiche di Luigi Briselli. La parte storico-didascalica, con qualche nuova e interessante scoperta,da approfondire, è una breve e quasi pedissequa rivisitazione, che presenta gli stessi identici pregi e difetti dei precedenti volumi, dai quali gli Autori hanno tratto ogni conclusione. Di Vittoria, l’infelice “Monaca Di Monza sissese” ,parlò ampiamente anche Gianni Capelli, in “Sissa e le sue Delegazioni”. Ne accennai anch’io , seguendo la loro scia. Con questa misteriosa storia, basata però su tempi ,luoghi e persone realmente esistiti, ci troviamo catapultati nella zona dedicata al Divino Padus o al Padus Amoenus, al Grande Fiume, il vecchio padre Po ,che da secoli scorre, difeso dagli argini maestri. In questa antica Bassa il mito si mesce sempre alla storia. E ’una fettaccia di terra guareschiana. Anche tonniana, quando le bestie parlano, oppure verdiana ,quando le potenti note musicali accompagnano il respiro dei contadini, nelle assolate aie e nei campi, o nelle fredde cantine, intenti ad annusare il profumo di nobili salumi. Sixia si formò forse dalle esondazioni del Taro-il turbolento-che la separò dal nucleo più antico di Palasone. Prima, zona di mare e poi, di terreno alluvionale . Zona di acque ,di palafitte, di muschi, di nebbie ,di brume o foschie. Zona di umidori, nella quale sorse un poderoso castello , roccaforte più potente un tempo che non oggi. Ora resta solo una rocca, smantellata, privata di ogni elemento difensivo: il fossato, il ponte levatoio, le mura merlate, le torri, magari quattro o cinque un tempo e non solo una, come ora. Forse ci piace immaginarla davvero con quattro torri ai lati e un alto maschio o mastio centrale, già dal quattordicesimo-quindicesimo secolo , magari con un pozzo dei mille tagli o con un tunnel segreto e sotterraneo che la colleghi alla vicina Torricella. Corredata però ancora di una montagnola e di una niviera. Molti la descrivono con una sola torre, ma i castelli medievali erano più imponenti e, per i Terzi ,in un primo periodo, dovette essere proprio così : imponente fortezza. Scusatemi se a me piace pensarlo. Per rendere l’idea di come me la immagino, basterebbe recarsi nel Municipio di Zibello, per visionare il dipinto del 1871 di Camillo Scaramuzza, nipote del grande Francesco, intitolato” Il circo a Sissa”. Un vero Castello. Già nel 1182 pareva esistesse un Castellum de Sissa di proprietà del Capitolo di Parma ,ma poi, senza soffermarci troppo sui vari passaggi, furono soprattutto i duchi milanesi,il primo fu Gian Galeazzo Visconti, seguito più avanti dagli Sforza, che notarono il valore guerriero di questa famiglia ,proveniente dalla bergamasca Val Cavallina. Poi divenne la Rocca del Feudatario e infine, prevalentemente, la Rocca dei Terzi. Nel 1409 fu devastata dai Veneziani, prima alleati e poi voltagabbana, come all’epoca capitava frequentemente ,per sete di sangue e di potere. Nel 1440 Filippo Maria Visconti riconsegnò i domini ai Terzi. Nel 1450 Francesco Sforza eresse il feudo a contea . Già dieci anni prima i Terzi avevano ricostruito il maniero in modo più modesto- Saccheggi ,fatti d’arme, distruzioni e ricostruzioni ne modificarono l’aspetto ,sino ai tempi attuali. Non sto a parlarvi di tutte le vicende ,del tremendo e potente Ottobono, di altri esponenti di questa famiglia e di tutti i loro possedimenti . Mi soffermerò attorno al 1470-71,al tempo di Galeazzo Maria Sforza e , in particolare, su Paola Lanfranchi o De’ Lanfranchi ,madre di Vittoria, Giovan- o Gianmaria e Panfilo ,ormai vedova di Guido Terzi, che volle, per ragioni di rango e di stato, irrompere prepotentemente nella vita amorosa della povera figlia e di quel disgraziato Morello, che amò la giovane a tal punto da sposarla in segreto e che ebbe l’unica colpa di essere solo un vassallo al loro servizio. Vittoria fu costretta a divenire monaca nel Convento di San Domenico di Parma e Morello non si seppe che fine fece. Fu allontanato? Fu ucciso? Fu incarcerato? Dove? Il mistero ,il giallo s’infittiscono. Occorrerebbe cercare su vecchie carte e documenti. Ma esisteranno ancora? Saranno state falsate? Corrette , eliminate? La Storia appassiona ancor più quando, da un documento forse falsato, leggiamo che le nozze non ebbero mai luogo. Il suddetto è datato 15 Maggio 1471,con la scritta lapidaria ” Fu verificato il no”. Addirittura fu un Messo vescovile a dichiararlo, in modo perentorio e inquisitorio. Ci appassioniamo ancor più a questa incredibile e triste storia, per l’ingiustizia subita ,immaginando i lamenti e i pianti, il cuore ferito dei due sposi, subito separati contro il volere divino. La giovane Vittoria addirittura rinchiusa in convento, contro la sua volontà. Non proviamo neppure a pensare alla fine di Morello. Chissà quale veramente fu. Ecco perché –e uno dei primi a riportarlo fu Bacchini, naturalmente recependo la bibliografia precedente, seguito poi da altri, la storia ci attrae e ci intriga. Mi soffermo a leggere proprio sul volume “ Sissa “ questa frase: “…Esiste attorno a questa rocca una storia d’amore patetica: è la storia di Vittoria Terzi, figlia di quel Guido Terzi che nel 1440, assieme ai fratelli Giberto e Nicolò, ricostruì la rocca…”Poi ,così continua: “…E neppure in quali ambienti di questa roccaforte che, ad onore di suo padre e di sua madre, era stata eretta 20 anni prima a contea dal Duca di Milano, sia stata decisa, mentre ella languiva in convento, la sua triste sorte, o dove risuonò alta e disperata la voce di Morello che la proclamava invano sua sposa e reclamava la sua liberazione…(A.G.Quintavalle ”Castelli del Parmense”).Il seguito di questa storia è una leggenda che dice che il declino dei Terzi sia dovuto alla nemesi storica di questo fatto…” .Lamenti e urla di Vittoria, di Morello? Possiamo immaginarli ,ora di nuovo riuniti, aggirarsi nelle buie sale della rocca? Oppure, dopo secoli e secoli, ancora tormentati e infelici? Separati l’uno dall’altra? O riuniti nella pace del sonno eterno e del Signore? Fantasia? Paranormale? Giallo? Leggenda? Realtà? Ora è la Rocca stessa, abbandonata e ferita, inagibile e chiusa, a gemere in silenzio o con sospiri che ,forse, la civiltà moderna, così disattenta, materialista e frenetica, ha cancellato o non ha mai udito o creduto veri. Forse Vittoria potrebbe rappresentare per noi il simbolo dell’amore e il tentativo di ricostruire, almeno col cuore e con l’immaginazione, la rinascita del simbolo di Sissa e ora di Sissa Trecasali. Nel nome e nel ricordo di Vittoria e di Morello, vogliamo che diventi il luogo del cuore di tutti, sissesi trecasalesi e non. Almeno nelle notti di luna e nel silenzio ristoratore di Morfeo cerchiamo di udire il loro pianto sommesso. Servisse anche solo per pronunciare in loro ricordo una preghiera o per vivere con più consapevolezza il nostro passato e amarne i simboli e i monumenti che ce lo ricordino. L’amore vero può tutto. Già nell’antichità si ripeteva ”Omnia vincit amor”.

6 marzo 2014

Il mistero del Castello di San Pietro (PC) - Agata nella “camera con vista”?


di Paolo Panni





Tra le mura del castello di San Pietro in Cerro, suggestivo maniero della Bassa Piacentina, aleggerebbe lo spirito di una giovane di nome Agata. Da tempo se ne parla. Ma ora, per la prima volta, in anteprima per Emilia Misteriosa, è addirittura il proprietario dell’antico e imponente edificio, il mecenate e collezionista d’arte Franco Spaggiari, a dare la sua versione dei fatti, prendendo spunto nientemeno che dalle esperienze vissute in prima persone. A partire dalle luci che si accendono e si spengono da sole, con l’elettricista che garantisce sul buon funzionamento del quadro elettrico e l'assenza di possibili contatti. La sensazione, per Spaggiari, di non essere solo nella stanza davanti al camino, arredata con opere d'arte alle pareti, l'unica – all'interno dell'antico castello quattrocentesco - ad uso privato della famiglia insieme ad altre due sale ed un soppalco. 






Senza dimenticare la finestra della camera da letto con vista sulla porta a sud del maniero verso il lungo viale di tigli che si apre come una folata di vento. E, ancora, il custode che una sera, dopo il consueto giro di perlustrazione, è sceso di corsa dalle scale, bianco come un lenzuolo, ed è andato ad imbracciare un vecchio fucile da caccia con in cuore un gran spavento prima di ritornare di sopra e finire il giro di controllo: “...ma non ha mai voluto rivelare cosa ha visto o quale forma abbia creduto di vedere, così inattesa da mettergli molta paura: ha che fare con qualcosa di paranormale che l'ha talmente spaventato da non volerne nemmeno parlare”. Così spiega il proprietario del maniero Franco Spaggiari, imprenditore e collezionista d'arte, che ha ribattezzato con un nome il mistero del maniero, ancora circondato da un grande parco a San Pietro in Cerro nel piacentino: il mistero si chiama “Agata”, ovvero il fantasma gentile, “che si fa sentire a mio avviso in occasioni particolari – afferma Spaggiari - in vista di un matrimonio per portare fortuna, quando c'è un'emozione o qualcosa di bello legato all'amore o al bene. 





Se di fantasma si tratta, è lo spirito di una fanciulla che ancora crede all'amore a prima vista e al per sempre”. San Pietro in Cerro è un piccolo comune di pianura, a una ventina di chilometri da Piacenza, e a due passi dal confine con le province di Parma e Cremona. L'insediamento castellano, costruito sui resti di uno più antico, venne fondato nel 1460 da Bartolomeo Barattieri, giureconsulto e ambasciatore alla corte di Papa Giulio II. La struttura è interamente visitabile (tranne l'appartamento nella torre a sud di proprietà privata della famiglia) e racchiude oltre 30 sale riccamente arredate, due saloni d'onore, le cucine, le prigioni e una biblioteca storica con oltre 2.000 volumi. “L’origine del toponimo “in Cerro” si spiega con la consistente presenza in quella zona di una varietà di quercia, il cerro appunto, nome comune dell'albero Quercus cerris - prosegue il collezionista Spaggiari - Nel Castello sono accaduti fatti strani e, se di fantasma di tratta, penso sia una presenza buona, anche perchè il Castello di San Pietro è stato recuperato e ristrutturato da parte mia e dalla mia famiglia con un amore infinito, tassello dopo tassello, pietra dopo pietra. E' aperto alle visite guidate, si affitta per matrimoni, cerimonie, convegni, meeting. 




Lo spirito di Agata non penso possa farci i dispetti – sceglie di raccontare Franco Spaggiari - certo si resta perplessi e un po' inquieti di fronte a strani rumori, sensazioni di essere osservati, luci che saltano, essere avvolti dal buio e poi d'un tratto riappare la luce. Sono segnali da interpretare. Ma siamo in un castello!”. E c’è poi il mistero della torre. “Leggenda narra – dice a riguardo Franco Spaggiari - che, ad inizio Cinquecento, visse nelle terre attorno alla roccaforte una giovane e bella ragazza a servizio nella corte dei nobili Barattieri. La fanciulla si innamorò, corrisposta, di uno scudiero. I due giovani decisero di coronare il loro sogno d'amore convolando a nozze. Un nobile del luogo volle invece la fanciulla per sé cosicchè il giovane scudiero, ferito nell’orgoglio, decise di vendicare l'amata: durante la notte raggiunse la camera da letto del nobile e nel sonno lo pugnalò a morte. Lo scudiero fu braccato ed arrestato. Pochi giorni dopo, a fronte di un processo giudicato sommario, venne giustiziato con impiccagione pubblica in piazza Cittadella a Piacenza. La giovane senza il suo amore, disperata, si tolse la vita gettandosi dalla torre del Castello di San Pietro in Cerro proprio sulla porta a sud. Questa è la leggenda legata al maniero: se poi chi spegne e accende la luce all'improvviso sia proprio la stessa fanciulla non possiamo saperlo. Ci piace immaginare che il fantasma “eternamente innamorato” della giovane dimori tutt’oggi tra le mura del quattrocentesco maniero e si chiami Agata, protegga le coppie, gli amanti e chi si innamora. 





Alcuni turisti hanno raccontato di aver percepito una presenza...”. E’ certo che nei secoli morirono parecchie persone nelle prigioni del castello: “Una pietra sul muro, oltrepassato il portone d'ingresso, lo testimonia: reca la scritta di un condonnato a morte che invocava “mater”, in caratteri gotici” - sottolinea Spaggiari - il castello si compone del mastio d’ingresso, che fuoriesce leggermente dalla linea della cortina muraria, e due cilindrici torrioni ad angolo, a difesa del lato settentrionale. 



Esternamente sembra, ad un primo sguardo, una compatta struttura difensiva, mentre all’interno si apre in una corte quadrata raffinata, a doppio ordine di eleganti arcate. A difendere il lato meridionale è la torre-mastio posta al centro del corpo di fabbrica e dotata di ingresso con ponte levatoio. Ed è questo lo spazio che racchiude il “mistero del fantasma”, l'appartamento a sud , il pianerottolo delle scale che separa le stanze private dall'accesso al mim – Museum in Motion dove sono raccolte oltre 800 opere d'arte moderna e contemporanea, esposte a rotazione, 120 alla volta. Le tre stanze ed il soppalco – aggiunge - sono una parte importante del castello, nata come appartamento degli ospiti ed in realtà diventate il luogo privato dove mi rifugio quando desidero stare tranquillo immerso nel silenzio, avvolto dalla quiete del luogo. Qui accadono cose speciali. Un castello va vissuto anche così. Poche persone possono accedervi o le hanno viste, proprio perchè sono riservate: è capitato che storici dell'arte, architetti e persino sensitivi abbiamo chiesto di poterle vedere, oltre ad amici e artisti che spesso ospito a San Pietro in Cerro. La camera da letto è collocata esattamente sopra l’ingresso principale del castello, nell’antica torre medievale di difesa, curiosamente a sud, con il sole negli occhi. In origine questa era una stanza per le guardie e lo spessore del muro supera il metro. Proprio lo spessore delle mura renderebbe, secondo alcuni sensitivi, questa ala un luogo particolare che isola le percezioni, le pulisce, le canalizza e le amplifica”.




La magia più grande che dona, tuttavia, il Castello di San Pietro è il cielo stellato d'estate incorniciato dalla corte porticata: “Fantasmi o no, l'emozione più forte sono le notti d'estate all'interno del maniero: se si resta al buio nella corte interna, dopo un evento o al termine di un matrimonio o di una cena, e si guardà in su...c'è una notte piena di stelle e si avverte la carezza di Dio” ha concluso.




Per coloro che vogliono saperne di più e visitare il Castello di San Pietro in Cerro, uno dei 23 Castelli del Ducato di Parma e Piacenza, è possibile accedervi farlo tutte le domeniche di ogni mese ed festivi da marzo a ottobre 2014. Le visite sono guidate tutte le domeniche di marzo, aprile, settembre, ottobre e primo fine settimana di novembre 2014 alle 11, 15, 16, 17 * (* inizio ultima visita); a maggio, giugno, luglio e agosto 2014 visite guidate alle 11, 16, 17, 18 * (* inizio ultima visita).

Nei giorni feriali: visita guidata su prenotazione per gruppi minimo 10 persone. Disponibilità per cerimonie e convegni. Biblioteca storica ricca di oltre 2.000 volumi consultabile su appuntamento. Possibilità di pernottamento presso la Locanda del Re Guerriero***. Nel percorso di visita si ammirano le sale arredate del pian terreno, le sale arredate del piano nobile, il sottotetto, il loggiato, il mim (museo d'arte contemporanea), il cortile dei cavalieri ed il parco.


LE FOTO SONO DI PROPRIETA' DELL'ASSOCIAZIONE EMILIA MISTERIOSA E DELL'AUTORE.
PER UN LORO UTILIZZO E' SUFFICIENTE CITARNE LA FONTE.