26 luglio 2018

MONTICELLI D’ONGINA- L’ULTIMA CENA DEL CASTELLO ISPIRO’ LEONARDO DA VINCI?


di Paolo Panni


Il quattrocentesco affresco in cui è rappresentata l’Ultima Cena, conservato nella maestosa rocca Pallavicino Casali di Monticelli d’Ongina, potrebbe avere ispirato il celeberrimo pittore, architetto e scienziato Leonardo Da Vinci per la realizzazione del Cenacolo Vinciano? Un’ipotesi suggestiva e misteriosa, a quanto pare fondata. 


L’Ultima Cena dipinta da Leonardo, conservata nel refettorio del santuario di Santa Maria delle Grazie in Milano, considerata come una delle opere d’arte più importanti, a livello mondiale, di tutti i tempi, potrebbe aver trovato nel dipinto monticellese la sua origine. Non lo diciamo noi, che non ne abbiamo nemmeno la competenza, ma lo afferma il famoso critico d’arte Vittorio Sgarbi che, durante una sua recente conferenza pubblica avvenuta proprio nel popoloso centro della Bassa Piacentina, si è pronunciato in questo senso. Detto da uno della sua levatura culturale, e della sua esperienza in campo artistico, la cosa non può che sollevare notevole e comprensibile curiosità. 

All’interno della rocca si trova la cappellina di Corte, affrescata nel XV secolo da Bonifacio e Benedetto Bembo, celebri pittori lombardi, voluta da Carlo Pallavicino, figlio di Rolando Il Magnifico, una volta nominato vescovo di Lodi, nel 1456 (su pressioni di Francesco Sforza). Già definita da Sgarbi come la “più importante opera italiana di decorazione tardogotica”, era utilizzata dal vescovo Carlo Pallavicino (morto nel 1497 in odore di santità)I come cappella privata. Ad impreziosirla vi è un interessante ciclo di affreschi con figure di angeli, profeti e personaggi dell’epoca, episodi della vita di San Bassiano da Lodi, San Giorgio che uccide il drago, la Vergine con i santi Bernardino da Siena e Bernardo da Chiaravalle, il Calvario, l’Annunciazione, la Deposizione dalla croce, i quattro evangelisti, un ritratto del vescovo Carlo Pallavicino (morto in odore di santità) e, appunto, l’Ultima Cena. 

Quest’ultima potrebbe avere ispirato il celeberrimo pittore, architetto e scienziato Leonardo da Vinci per la successiva realizzazione della sua famosissima Ultima Cena conservata, come anticipato, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie in Milano. Ad avanzare questa affascinante ipotesi è stato appunto Vittorio Sgarbi, celebre critico d’arte. Da evidenziare che l’opera di Leonardo è stata realizzata fra il 1495 e il 1498, quella del Bembo solo pochi anni prima. Un elemento, quindi, che rende plausibile quanto ipotizzato da Sgarbi. Un mistero che ha subito affascinato e attirato diversi studiosi. Tra questi anche Laura Putti, autrice del libro che parla proprio della cappellina del castello, che nelle settimane successive la rivelazione di Sgarbi ha accompagnato sul posto il professor Edoardo Villata, docente alla Cattolica di Milano, autore di diversi studi sul patrimonio artistico del piacentino. 

Nel corso del sopralluogo, al quale hanno partecipato anche altri studiosi ed esperti, la Putti ha mostrato una copia della prima bozza dell’opera di Leonardo; uno schizzo preliminare confrontato con l’affresco di Monticelli. Secondo il professor Villata, la bozza in questione potrebbe dimostrare che Leonardo, prima di dipingere il Cenacolo, potrebbe aver osservato e preso ispirazione da un’opera precedente, una <Ultima Cena> tardo gotica lombarda, probabilmente realizzata all’interno del Ducato di Milano. Non significa quindi che si debba per forza trattare di quella di Monticelli, ma gli elementi comuni ci sono. Come osservato ancora da Sgarbi durante la conferenza, sia la posizione che la disposizione degli apostoli coincidono; stesso discorso per la direzione degli sguardi e il fatto che, a differenza di altre raffigurazioni dell’Ultima Cena, sia in quella di Leonardo da Vinci che in quella dei Bembo gli apostoli sono rappresentati <a due a due>. Sulla bozza di Leonardo sono indicati anche i nomi e anche su questo potrebbe aver preso spunto da un’opera preesistente. Nell’affresco dei Bembo gli apostoli sono rappresentati con le aureole, ma è opinione di diversi studiosi che un tempo vi fossero invece proprio i nomi, poi tolti. Nel dipinto di Monticelli, su sfondo verde, spicca la tavola imbandita per la cena attorno alla quale si trovano Cristo e gli Apostoli, tranne Giuda, il traditore, raffigurato dalla parte opposta della tavola, separato quindi da tutti gli altri. Gli apostoli sono rappresentati mentre conversano amabilmente tra loro mentre San Giovanni posa il suo capo sul petto di Gesù. Inutile dire che sulla figura di San Giovanni, l’apostolo prediletto da Gesù, si sprecano le posizioni, specie dopo l’uscita del celebre romanzo “Il Codice da Vinci” di Dan Brown che ha generato fiumi di parole circa la possibile presenza di Maria Maddalena, individuata come “compagna” di Gesù, nella figura di San Giovanni rappresentato, nel capolavoro di Leonardo , così come nell’affresco di Monticelli, con tratti apparentemente femminili e il volto efebico. Va però anche ricordato che la libertà romanzesca permette sempre ogni possibili invenzione e interpretazione ma, nel caso di Leonardo Da Vinci, va anche considerato che questi, nelle sue opere pittoriche, usa spesso linguaggi ermetici, occulti e misteriosi ed era ampiamente a conoscenza delle tecniche esoteriche, specie quelle legate al culto di Giovanni Battista e della Maddalena. Di esoterismo era appassionato anche Bonifacio Bembo, che col fratello Benedetto dipinse la cappella di Monticelli. Altro aspetto che può dunque legare tanto le due figure di artisti quanto le due opere, rendendo la vicenda complessa, curiosa, affascinante ed enigmatica. Anche Bonifacio Bembo, insieme a Benedetto, nella realizzazione dei loro affreschi potrebbero avere utilizzato linguaggi ermetici ed esoterici? 

Una domanda che va ad aumentare il “bagaglio” di misteri di un castello che, come già riportato in un reportage di alcuni anni fa di Emilia Misteriosa, è famoso anche per altri enigmi che riguardano la cosiddetta presenza del celebre “pozzo del taglio”, di un tunnel nascosto che collegava maniero e chiesa collegiata e del probabile fantasma di Giuseppina, giovane ragazza assassinata nel 1872 da un suo pretendente, Giuseppe Modesti, con la sola colpa di averlo rifiutato. L’uomo, oltretutto, riuscì ad evitare la pena capitale dopo una rocambolesca fuga dal carcere di Parma, per poi diventare un ufficiale dell’esercito francese. 

Tornando alla celeberrima figura di Leonardo Da Vinci, ad avvallare la possibilità che possa aver preso ispirazione a Monticelli d’Ongina, ci sono poi i suoi legami col territorio piacentino. E’ noto, ad esempio, che, da studioso e profondo conoscitore della natura e del Creato, eseguì importanti studi sull’antico mare che tra 5 e circa 2 milioni di anni fa occupava la Pianura Padana. In particolare si soffermò sui resti fossili, da lui definiti “njchi”, specie quelli del Piacenziano ritrovati nei pressi di Castell’Arquato e Lugagnano Val d’Arda. Per primo ne riconobbe l’origine organica e studiò le conchiglie raccolte nel piacentino mentre si trovava a Milano, impegnato a lavorare alla statua equestre di Francesco Sforza e li citò nel suo famosissimo Codice Leicester. Senza dimenticare poi il suo possibile legame con Bobbio. Infatti alcuni studiosi, una su tutti Carla Glori, sostengono che il paesaggio rappresentato ne “La Gioconda” sarebbe quello di Bobbio. Leonardo potrebbe averlo notato da una finestra del castello Malaspina Dal Verme. Inoltre il ponte che compare nella parte destra del dipinto sarebbe quello “del Diavolo” o “Ponte Gobbo”, sempre di Bobbio. Inoltre recenti approfondimenti hanno permesso di appurare che nel paesaggio reale della Val Trebbia si possono individuare ben dodici coordinate corrispondenti ad altrettanti elementi raffigurati nel quadro. 

C’è infine chi sostiene che allievi di Leonardo Da Vinci, se non addirittura lo stesso Leonardo, possano aver in parte lavorato alla Cappella Pallavicino della chiesa dell’Annunziata di Cortemaggiore o ai monumenti sepolcrali della nobile famiglia della basilica di San Lorenzo, sempre a Cortemaggiore. Ma questa ipotesi sembra essere decisamente remota. 

Resta tuttavia il fatto che il grande scienziato, pittore, architetto e inventore, unanimemente considerato come uno dei più grandi geni dell’umanità aveva probabili legami con Piacenza e il suo territorio (del resto la stessa vicinanza con Milano dove ha a lungo lavorato lo avvallano) e, quindi, non è affatto escluso che il “gioiello” gelosamente custodito nella rocca di Monticelli d’Ongina sia stato d’ispirazione per una delle opere d’arte più famose al mondo, anche per i suoi contenuti enigmatici. 




FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFICHE 



https://www.stilearte.it › Aneddoti sull'arte 










A.Gervasoni, “La Cappellina di Palazzo”, Banca di Piacenza, 1993 



Per le foto della Cappella si ringraziano Elisa Calamari e don Stefano Bianchi. L’immagine di Leonardo è tratta dal sito focus.it. Le foto del castello sono dell’associazione Emilia Misteriosa e dell’autore. Per un loro utilizzo è sufficiente citarne la fonte. 

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13 luglio 2018

“L’ESPERIENZA DI UN ESORCISTA” – CONFERENZA A SANTA MARIA DI CAMPAGNA (PC), UNO DEI LUOGHI IN CUI IL DEMONIO SI E’ MANIFESTATO IN TUTTA LA SUA VIOLENZA



di Paolo Panni


Padre Contardo Montemaggi, 83 anni, frate minore francescano per oltre dieci esorcista della Diocesi di Ravenna, in servizio dal 2013 nella basilica di Santa Maria di Campagna in Piacenza è stato al centro della conferenza dal titolo “L’esperienza di un esorcista” che si è tenuta nel chiostro del complesso monastico piacentino, nell’ambito dell’evento “Salita al Pordenone” promosso dalla Banca di Piacenza. Simpatia ed esperienza da vendere, riminese d’origine, padre Contardo è uno che l’Emilia Romagna la conosce in lungo e in largo per aver svolto la propria missione di francescano da Parma a Modena, da Villa Verucchio a Faenza, da Predappio a Ravenna, per arrivare, quindi, a Piacenza. Ha ricoperto numerosi incarichi, compreso appunto quello di esorcista, per oltre dieci anni, quando era a Ravenna, nominato dall’arcivescovo della città romagnola monsignor Giuseppe Verucchi. I due si conoscevano già, dai tempi in cui Verucchi era vicario generale a Modena. Nel corso di un incontro padre Contardo ebbe a dire, al futuro presule: “Sono convinto che per voi superiori è più difficile comandare, che per noi obbedire”. Frase rimasta impressa al vicario che, dopo la sua nomina ad arcivescovo di Ravenna, sapendo che padre Contardo era stato trasferito nella stessa città, lo scelse come esorcista. 

Un incarico tutt’altro che semplice, che il frate accettò dopo che un suo confratello, a sua volta esorcista, gli disse “Accetta perché vedrai l’onnipotenza di Dio”. Come comportarsi con coloro che, forse colpiti da una presenza malefica, si fanno avanti domandando aiuto? “Mi comporto come con chiunque altro – ha spiegato il frate – la prima cosa è la presentazione mia personale, nel corso della quale pongo l’attenzione su alcuni aspetti della vita. Innanzitutto i tre doni: il corpo che lavora, l’anima che sorride e lo spirito che prega. Poi parlo dei problemi: la famiglia, la società, i sentimenti e Dio”. Da lì ecco l’apertura verso alcune sue esperienza personali e religiose: l’incontro con giovani fidanzati (con lei ragazza madre, morta poi a 55 anni per un tumore), con un omosessuale, con due sposi presi dai sensi di colpa a causa di un aborto e con un uomo (che da vent’anni non andava in chiesa) reo confesso di aver ucciso, avvelenandolo, il padre anziano ed infine la sua esperienza in famiglia (“palestra” nella quale è nata la sua vocazione religiosa, sostenuta in particolare dal papà). Perché parlare di tutte queste esperienze personali? Padre Contardo ha evidenziato, in questo senso, quanto sia importante sfogarsi, sentendosi liberi di parlare di tutto, togliendosi così pesi che possono opprimere una persona. “Chi ha problemi – ha ripetuto il religioso – non abbia paura a parlare. E’ altrettanto importante sentirsi ascoltati. Ecco perché prima di benedire le persone voglio farli parlare, con piena disponibilità di ascolto. Questo devono fare il sacerdote, il frate e il pastore”. 

Entrando poi nel merito della sua esperienza di esorcista ha citato due casi, che lui stesso ha definito “eclatanti” avvenuti durante il suo “mandato” a Ravenna. “La prima – ha spiegato – con un genovese che mi ha illustrato la sua situazione dopodiché abbiamo pregato in chiesa e ho visto le prime reazioni. Ho capito allora che necessitava di un esorcismo e ho chiesto l’aiuto di alcune persone di fiducia che potessero tenerlo fermo in caso di reazioni particolari. Fece urli tali che, a un certo punto, sentimmo suonare il campanello del convento. Era la polizia che era stata allertata dai vicini a causa delle urla così forti che si sentivano da star fuori. Dopo tre esorcismi questa persona è stata liberata. Il secondo caso – ha proseguito – è quello di una ragazza venuta col fidanzato e appena arrivata mi ha detto che mi avrebbe distrutto. Sono scappato e dopo tre minuti sono tornato. La ragazza non ricordava nulla, abbiamo pregato e fatto la benedizione con l’acqua santa senza che vi sia stata reazione alcuna. Ci siamo quindi dati appuntamento per il giovedì sera successivo per recitare il Rosario e, anche in quel caso, ho chiesto l’intervento di persone di fiducia. Ho indossato la cotta e non appena sono entrato in chiesa lei ha emesso un grido e mi ha sfiorato con un calcio. In quel momento mi sono ricordato le parole di quell’altro esorcista che mi aveva sollecitato ad accettare l’incarico dicendomi che avrei visto l’Onnipotenza del Signore”. 

Padre Contardo ha raccomandato, come indispensabili, la preghiera e la confessione. Quest’ultima come mezzo per distruggere il male. “Non abbiate paura di confessarvi e pregate tanto” rimarcando anche come l’ottimismo sia un elemento di particolare importanza. Come riconoscere, tuttavia, se le reazioni di una persona sono dovute a un’influenza diabolica e non a un disturbo mentale? In questo senso il frate esorcista ha fato alcune distinzioni tra ossessione (e agitazione) sottolineando come questa non sia opera del diavolo; possessione (che invece è di natura diabolica), vessazione (disturbo della personalità dato dal diavolo, che ha colpito anche celebri santi come San Pio da Pietrelcina, San Giovanni Maria Vianney e San Francesco d’Assisi) e infestazione dei luoghi (che richiede l’intervento dell’esorcista), precisando anche come, talvolta, si tenda a confondere la possessione con le malattie nervose. Infine si è inevitabilmente parlato di un celebre fatto, avvenuto nel 1920, l’esorcismo di una donna avvenuto proprio nel 1920, che rese necessarie ben tredici sedute, molto pesanti, e violente, passato drammaticamente alla storia (costando la vita anche a due persone, tra cui l’allora vescovo di Piacenza). Un esorcismo di cui si conservano, a Bologna (nella sede della Provincia dei Frati Minori Francescani), tutti gli atti attentamente realizzati, allora, da padre Giustino, in qualità di stenografo, che trascrisse parola per parola tutto quello che il demonio, durante le sedute, condotte da padre Pier Paolo Veronesi in qualità di esorcista, ebbe a pronunciare. Un esorcismo passato alla storia, finito nel libro “Intervista col diavolo”, di Alberto Vecchi, edito dalle Paoline nel 1954 e, di nuovo, pochi anni fa (nel 2013) , ripreso dal famoso esorcista padre Gabriele Amorth nel libro “L’ultimo esorcista – La mia battaglia contro Satana” scritto con Paolo Rodari e pubblicato da Pickwick. “A volte il diavolo ritorna, per uccidere”: questo il titolo, più che eloquente, del lungo capitolo (oltre trenta pagine) in cui viene attentamente raccontato quello che, meno di un secolo fa, accadde nel convento piacentino. L’esorcista fu, come anticipato, padre Pier Paolo Veronesi, all’epoca cappellano del manicomio di Piacenza e nei fatti furono coinvolti anche padre Apollinare Focaccia, padre Giustino (come stenografo) ed una serie di persone di fiducia tra cui l’allora direttore del manicomio locale, il dottor Lupi. Il primo esorcismo avvenne alle 14 del 21 maggio 1920 e fin dalla prima seduta il demonio si qualificò col nome di Isabò manifestando tutta la sua aggressività e violenza e, all’esorcista che più volte gli chiese cosa volesse dire Isabò rispose “Significa essere fatturato così bene da non potersene più distaccare” mentre alla domanda circa la sua provenienza disse “dai deserti lontani” affermando di avere sette compagni e di essere entrato nel corpo della donna il 23 aprile di sette anni prima alle 17 (impiegandovi sette giorni), in seguito al maleficio di uno stregone attraverso un bicchiere di vino, un po’ di carne e qualche goccia di sangue, interessando anche altri membri della famiglia. In uno dei numerosi momenti di ribellione riuscì anche a strappare la stola del sacerdote dicendo “hanno impiegato sette giorni per farmi entrare, e tu vuoi farmi uscire da questo corpo con un solo esorcismo?”. Gli esorcismi, molto duri e violenti, andarono avanti per diversi giorni ed oltre ad Isabò si manifestarono altre due potenze del male, Maristafa ed Erzelaide e numerose altre (con denominazioni quali Balin, Erzelite, Cagliero, Eslender e Stanislao). L’ultimo esorcismo avvenne il 23 giugno 1920 quando la posseduta rigettò in un catino una palla di salame delle dimensioni di una piccola noce, con sette cornetti. Ma il demonio continuò a seminare morte e distruzione. Innanzitutto la morte del signor Cassani, uno degli assistenti che rimase costantemente accanto alla donna indemoniata, di cui fu annunciata la morte che avvenne improvvisamente nonostante l’uomo fosse sano e robusto. 

Padre Veronesi continuò a vivere, ma sempre segnato dall’incubo e dal terrore dei suoi ricordi. Un giorno ricevette anche una bastonata in testa, ma pur guardandosi attorno non vide nessuno e da quel momento non riuscì più a sollevare la testa proseguendo la sua vita col mento puntellato sul petto definendola come “vendetta del demonio”. Durante gli esorcismi, Iabò annunciò anche la morte del vescovo monsignor Giovanni Maria Pellizzari. Il presule morì improvvisamente, di notte. “Il diavolo – scrive padre Gabriele Amorth nel suo libro – va sempre in giro seminando sangue, morte e distruzione. Sempre. Ininterrottamente. Essere posseduti è un’esperienza che paradossalmente può non finire mai. Nel senso che anche una volta liberati rimane un’impronta, una ferita, come un buco nero che comunque ci accompagna. Il demonio non è più una realtà vivente dentro di noi, ma è comunque un timbro opprimente che misteriosamente si fa sempre sentire. Anche noi esorcisti ci portiamo dietro il peso dei diavoli che abbiamo scacciato. Li scacciamo, ma loro non muoiono, continuano a vivere e a fare il male. E soprattutto continuano a importunare chi ha contribuito a liberarli. Essere in grazia di Dio ed essere vicino a Dio è un rimedio sicuro contro gli attacchi del demonio. I diavoli – scrive ancora – ci osservano e ci tentano senza sosta. E così fanno con coloro che si sono liberati perché riprendersi l’anima di qualcuno che hanno in precedenza già posseduto è per loro una grande vittoria. A Piacenza il diavolo è tornato e ha fatto cose che non ho mai visto fare altre volte. E’ tornato per uccidere. Dare spiegazioni di questa cosa è arduo. Una cosa si può dire: spesso, non sempre, si viene posseduti consapevolmente. C’è la nostra volontà che dice a Satana ‘Entra in me’. Quando si stipula un patto con Satana scioglierlo può essere quasi impossibile. Se si concede l’anima per l’eternità a Satana poi uno può ravvedersi e liberarsi ma quel patto c’è stato e le conseguenze vanno comunque pagate. L’anima, insomma – conclude – può salvarsi ma il corpo, misteriosamente, può ancora morire per mano e volere di Satana”. Parole che, scritte da un grande esorcista come padre Amorth, non possono che far riflettere e incutere nuovi e misteriosi interrogativi, come quelli legati, appunto, all’esistenza del demonio e alle sue molteplici manifestazioni. Sull’esistenza, padre Montemaggi non ha dubbi e proprio sul finire della sua conferenza a Piacenza ha detto “Il diavolo esiste e ci sono elementi abbastanza forti che lo dimostrano”. Tra questi, appunto, l’impressionate esorcismo del 1920.