7 novembre 2017

MARAZZINI DI VERNASCA – CRIMINI, ENIGMI E TRAGEDIE NEL BORGO FANTASMA


di Paolo Panni




Uno sparuto gruppo di umili case, sulla sommità dei colli che delimitano i confini tra Val d’Ongina e Val d’Arda. Un tempo abitato da gente laboriosa, che non conosceva soste o fatiche; oggi immerso in un silenzio quasi surreale, segnato profondamente dalle tragedie di cui, in passato, è stato teatro. E’ sufficiente, nei centri dei dintorni, incontrare i più anziani, chiedendo loro notizie circa vicende storiche legate al piccolo agglomerato di case, per sentirsi rispondere “lì sono successe molte disgrazie”. Parole più che sufficienti per destare la curiosità e la voglia di saperne di più, specie in chi vuole approfondire e conoscere misteri, enigmi e vicende meno note di un territorio.

Si può tranquillamente affermare che, per le sue modestissime dimensioni, il borgo è stato, nel tempo, al centro di una serie di tragici fatti, tutt’altro che invidiabili. Un record, di quelli che nessuno certamente vorrebbe eguagliare. Diverse morti tragiche hanno segnato la storia del piccolo centro collinare, oggi in completo stato di abbandono e di fatiscenza, vivo nelle memorie di chi vive nei dintorni proprio per i fatti funesti di cui è stato, suo malgrado, teatro. 

Il primo e più famoso fatto riguarda una ragazza, Lidia Gandolfi, staffetta partigiana che, come molti giovani di allora, fece i conti con la furia nazifascista. La sua unica colpa fu quella di aver cercato di portare un messaggio ad altri partigiani, nascosti sui colli vicini. All’epoca un motivo più che sufficiente per seviziare e uccidere una ragazza di 23 anni. Decorata di medaglia d’argento al valor militare, la sua storia è descritta in diverse memorie e pubblicazioni locali ed è inserita tra i 459 episodi di matrice nazista avvenuti in Emilia Romagna che costarono la vita a qualcosa come 2962 persone. Nata a Marazzini il 23 settembre 1921, dopo aver trascorso parte della gioventù ad aiutare il padre nel lavoro dei campi (erano in tutto 6 fratelli), fu uccisa, nel suo stesso paese natale, il 7 gennaio del 1945, mentre un’abbondante coltre nevosa copriva i colli e gli abitati. Staffetta disarmata, piccola vedetta di un immenso esercito che si adoperò per la liberazione dell’Italia, era stata inviata a Castell’Arquato affinchè riferisse, ai partigiani, dell’andamento delle cose. Ma sulla sua strada trovò i tedeschi, che la fermarono in località La Ciocca, catturandola insieme al cognato (che pare si trovasse casualmente su quella strada) e ad un giovane amico di appena 17 anni. Quest’ultimo tentò la fuga e fu subito ucciso, mentre il cognato, che era stato legato ad una inferriata, riuscì a liberarsi dandosi alla fuga. 

La sorte peggiore la ebbe la sfortunata 23enne che, tra le mura della sua casa, a Marazzini, fu violentata e seviziata, prima di essere uccisa. Non contenti, i tedeschi, abbandonarono il suo corpo fuori di casa, nella neve, seppellendola a testa in giù, come a volerla deridere dopo aver abusato di lei che, in tutti i modi, anche a costo della sua stessa vita, si oppose a rivelare il messaggio che aveva in serbo di portare agli altri partigiani. Questo le valse la decorazione con la medaglia d’argento al valor militare: “Staffetta partigiana in territorio controllato dal nemico – si legge nella motivazione dell’onorificenza – diede numerosi esempi di valore, astuzia e sangue freddo. Durante un duro rastrellamento, si offriva spontaneamente di recare un importante ordine di operazione ad un lontano distaccamento della sua formazione. Intercettata una prima volta da una pattuglia tedesca, non desisteva dal suo compito e proseguiva coraggiosamente verso la destinazione che le era stata indicata. Fermata una seconda volta, veniva sottoposta a sevizie perché rivelasse lo scopo della sua missione. Poiché continuava a tacere, veniva barbaramente uccisa con un colpo alla nuca e abbandonata sulla neve. Più tardi, sul suo corpo recuperato dai familiari, veniva rinvenuto il messaggio che si era rifiutata di dare ai suoi carnefici. Eroico esempio di virtù femminile”. 

Un episodio tragico, passato naturalmente alla storia, ma non l’ultimo, purtroppo, per la sparuta comunità di Marazzini. Infatti, negli stessi anni, un’altra giovane di 23 anni morì, stavolta suicida, fra le mura della sua casa. Ignote le cause di una decisione tanto tragica ed estrema, ma certamente per arrivare ad un simile gesto non poteva che essere andata incontro a sofferenze personali, probabilmente molto intime. 

Ma non è finita, perché qualche anno più tardi, un’altra disgrazia, molto pesante, sconvolse la piccola località alle porte di Vernasca. Infatti, un bimbo di appena due anni (per altro legato da vincoli di parentela a Lidia Gandolfi), durante quella che doveva essere una giornata spensierata e divertente, precipitò improvvisamente in fondo a un pozzo, e per lui non ci fu nulla da fare. Un drammatico incidente di cui ancora oggi si parla, nella zona. Un fatto doloroso rimasto indelebilmente fissato, purtroppo, nella storia del piccolo borgo collinare.

Borgo, per il quale, dopo le morti violente delle due ragazze non è arrivata alcuna pace e il desiderio di vita tranquilla dei suoi abitanti è stato sconvolto da questo nuovo fatto tragico.

Nel tempo la piccola località è andata lentamente spopolandosi, ma dopo alcuni decenni di quella che si potrebbe definire una pace apparente, ecco che ancora la vita semplice di Marazzini è stata di nuovo movimentata da un doppio incendio che, tra il 2009 e il 2010, ha distrutto la casa in cui viveva l’ultima abitante locale, una ex insegnante lombarda che tra quei colli aveva trovato il luogo ideale per vivere. Ma di fronte al doppio rogo, anche lei dovette andarsene, lasciando nell’abbandono il piccolo villaggio.


Villaggio che oggi è un borgo fantasma; con le case ridotte ormai a ruderi, dove i suoni sono quelli del vento che fischia tra le fronde degli alberi e i muri cadenti, e di alcune vecchie lamiere che “stridono” incontrandosi. A “vegliare” su Marazzini sono rimaste alcune statue mariane, lasciate lì proprio dalla sua ultima abitante: una donna animata da una profonda fede che ha in qualche modo messo il borgo tra le mani di Maria, conferendogli un’aurea di misticismo, di soprannaturale e di suggestivo.


Un altro di quei luoghi dove è il silenzio stesso a farsi mistero; dove l’incredibile serie di fatti tragici che lo hanno sconvolto hanno il sapore di un grande enigma. L’enigma del villaggio che, a quanto pare, non deve essere abitato. Come in un sortilegio. Dove chi prova a viverlo pare destinato a non avere pace.



Ad aumentare i misteri e gli enigmi di Marazzini ci sono poi alcune testimonianze di persone, della zona e non, che hanno visitato il luogo, anche di recente, riferendo di aver osservato strane ombre aggirarsi tra la boscaglia e i ruderi e di aver udito lamenti e pianti provenire dai vecchi muri e dall’area in cui si trova il pozzo. Ancora una volta, anche nel rispetto delle testimonianze ricevute, non ci si sbilancia e non si spendono giudizi riguardanti la veridicità dei fatti che vengono indicati. Pur nella piena consapevolezza del fatto che, in questi casi, influiscono molto le emozioni e le suggestioni che ogni persona può avere, si può affermare che quella di Marazzini è una vicenda storica intrisa di arcani e misteri. 





FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFICHE





http://www.resistenzapiacenza.it/

Bollettino Storico Piacentino – Raassegna semestrale di storia, lettere e arte fondata da Stefano Fermi – luglio/dicembre 2003- Casi di Guerra di Angelo Cerizza 

SI RINGRAZIANO TUTTE LE PERSONE CHE HANNO FORNITO LA LORO PREZIOSA COLLABORAZIONE

LE FOTO SONO DI PROPRIETA’ DELL’AUTORE E DELL’ASSOCIAZIONE EMILIA MISTERIOSA, AD ECCEZIONE DELL’IMMAGINE DI LIDIA GANDOLFI TRATTA DAL SITO ANPI.IT. 

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25 ottobre 2017

FRATI ASSASSINI, BRIGANTI E TRAPPOLE: L’INQUITENTANTE PASSO DI CENTOCROCI

di Paolo Panni


A mille metri di quota, tra verdi panorami in cui l’aria del mare si confonde con quella dell’Appennino, lungo un’antica via del sale, un luogo ricco di storia, dove misteri e leggende abbondano. Siamo al confine tra Emilia e Liguria, tra le province di Parma e La Spezia, tra i Comuni di Albareto e Varese Ligure, sfiorando quello di Tornolo. 

Tra le alte vette dell’Appennino, in un luogo citato sin dai tempi di Carlo Magno, si può tranquillamente dire che la denominazione “Centocroci” è tutta un programma e lascia chiaramente intendere che in passato qualcosa di grave deve essere successo. Già il fatto stesso che il posto, durante il secondo conflitto bellico, è stato al centro di sanguinose battaglie tra partigiani e nazifascisti, è la conferma del fatto che i fatti di sangue non sono purtroppo mancati. 

Ma per far luce su quel mix di storia e leggende che caratterizzano il luogo si deve andare molto più indietro nel tempo, tralasciando i fatti più recenti come quelli accaduti, appunto, durante il periodo della guerra. 

Quel che è certo è che in zona, nei secoli passati, operavano bande di briganti. Siamo, come anticipato, su una antica via del sale, una via di comunicazione importante per i traffici commerciali tra Emilia e Liguria. Di conseguenza era purtroppo normale che in azione vi fossero anche gruppi di banditi e di predoni, privi di scrupoli.

Partendo dalle memorie storiche, un vecchio manoscritto dello storico Antonio Cesena, conferma quanto appena evidenziato nel punto in cui si legge “nell’horribile selvaggio et oscuro luoco di Cento Croci, detto allora Monte di Lamba, oltre coloro che per mano d’assassini morivano, quali non erano pochi, morivano lì anche un numero infinito di persone soffocate dalle gran nevi, da venti, da freddi et horridi tempi”. Dunque, lì si moriva sia per la violenza dei briganti che per gli effetti, molto pesanti, dei rigidi inverni. “Dal che – scrive ancora Antonio Cesena – nacque che si chiamò monte di Cento Croci e non monte di Santa Croce come molti mal pratici hanno voluto dire, immaginandosi che il monte avesse pigliato nome dall’Ospedale…E’ dunque così detto perché morendo ivi, come si è detto, molte persone oppresse da vari casi per tutto dove si ritrovava un corpo morto si piantava una croce: et tanto era il numero delle croci che si diceva delle cento croci e così venne a cambiare il primo nome di Lamba”.

Fu grazie alla pietà degli abitanti di queste terre di confine che venne quindi costruito un “hospedale”, come scrive sempre il Cesena, con diverse abitazioni, abitato da una persona che veniva definita “Il Monaco”, originario di Varese Ligure, il quale come scrive lo storico “pensò una cosa rea e scelleratissima per arricchire, né molto pensandovi, sì come si deve credere, il diavolo per consigliero, come quello che mal volentieri vedeva farsi tanto bene in quello luoco, il spinse a prendere subito il mal suo pensato consiglio. Fece questo indiavolato huomo un pozzo molto profondo dalla parte di levante discosto dall’ospedale passi 521, siccome ho fatto misurare io, in luogo coperto di cespugli, cese e pruni: il qual pozzo al presente resta accanto alla strada, la quale in quel tempo passava su la porta del detto ospedale. Hor fatto il scelleratissimo huomo questo – prosegue il Cesena – subito che lì capitava alcuno sfortunato forestiero, parendoli huomo da denari, aiutato dai suoi, il svenava e poi spogliato il portava nell’horribil pozzo. Né potendo, il Divino giudizio di Dio comportare una così horribile cosa, permise che dopo la morte di dodici persone, la cosa si venne a scoprire sotto la forma che intenderete. Essendo soliti li uomini di quelli tempi tenere gran numero di cani mastini per defensione di loro bestiame, dei quali tenevano gran somma per gli abbondanti pascoli, eran sempre in pericolo delle fere. Questi mastini – scrive – partendosi da luochi circonvicini, venivano a schiere su la bocca del fetente pozzo, et urlavano a gara, stavano tutto il giorno: né si sa se fussero ivi tratti dal giudicio di Dio o dal fetore dei putridi corpi. Li pastori li quali vedevansi abbandonare, contro la loro natura, dai cani, non sapendo che immaginarsi, raccontato il caso ai suoi, si misero in animo di vedere che cosa fusse questa, per il che si misero a seguire li cani per la folta selva, da quali furono condotti sopra il scellerato pozzo: e visto questo horribile spettacolo, né sapendo che pensare, subito attoniti e smarriti corsero all’hospedale per notificarli quanto avevano veduto. Il Monaco con i suoi mostrò di meravigliarsi, ma la notte poi vistosi scoperto, tutti si fuggirono salvando con la trista e scelerata vita la per loro tanto mal guadagnata robba; benché per poco tempo di questa andassero allegri. E così venne questo loco tanto infamato che niuno si trovò che volesse abitarlo: per il che, mancando di abitatori, l’entrate furono usurpate in gran parte da li huomini…. L’anno di nostra 1559 io tornai a vedere il pozzo nomato da tutti Carenaggio e lo trovai più pieno di quanto l’avevo visto sei anni avanti”. 

Le antiche memorie scritte, vecchie di cinquecento anni, riportate dal Cesena nella sua “Relazione dell’origine et successi delle Terra di Varese”, confermano dunque che qualcosa di grave deve essere accaduto e parlano, chiaramente, di un pozzo dal quale hanno preso forma, e contenuto, poi anche tante leggende popolari. 

Va aggiunto che nel 1951 vi sono state perlustrazioni, di carattere archeologico, che hanno permesso di individuare l’area in cui, secondo la tradizione, sorgevano l’ospedale e la cappella. Una zona posta al di sotto del passo, a poca distanza dalla vecchia colonia provinciale antitubercolare della Spezia. In quell’occasione sono emersi pietre dure e arenarie, altre rossastre (diverse delle quali circolari, molto probabilmente vecchie coperture) e altre ancora di tipo calcareo ma, soprattutto, sono stati rinvenuti i poveri resti del parapetto di un pozzo con incise, in caratteri maiuscoli cinquecenteschi alcune lettere, tra cui la D e la G. La prima starebbe per “Dei” e la seconda per “Gratia”. Sono infine emersi i resti di fondazioni. 

Continuando ad attingere agli archivi e, quindi, alle fonti storiche, emergono ulteriori conferme circa la presenza, nel luogo, di un “hospedale” e di luoghi sacri.

Tra le fonti più remote, quella che conferma la presenza di un “hospedale” dedicato a San Michele in epoca longobarda (568-774). Più avanti nei secoli, un documento del 24 marzo 1186 vede l’allora arcivescovo di Genova (Ugo Della Volta) assicurare gli introiti a Centum Crucibus fino ai confini della pieve di Lavagna mentre un’altra documentazione del 2 novembre 1209, parla di beni che una importante famiglia locale, quella dei Fieschi, aveva all’ospedale de Centumcrucibus. La presenza di un ospedale è confermata anche in carte del 1446, del 1502 e del 1506. In un’altra del 1578 compare un altro arcivescovo di Genova, Cipriano Pallavicino, che univa l’ospedale di San Michele in Cento Croci con quello di San Nicolò in Pietra Colice. Da lì iniziò probabilmente il declino, visto che nelle memori di Giovanni Battista Maghella del 1746 si afferma che l’ospedale e la cappella di Cento Croci erano completamente distrutti. 

Un luogo quindi di origine longobarda, che ha attraversato i secoli del medioevo e del rinascimento, per poi finire in rovina. Rimanendo vivo nelle memorie e nei documenti, e di fatto anche nelle leggende. 

Una di queste parla di un mercante che spesso transitava nella zona, diretto a Varese Ligure, trovando sovente ospitalità tra le mura dell’ostello di San Michele dove dimoravano cinque fraticelli coi quali aveva stretto amicizia. Una notte fu accolto invece da un gruppo di monaci, o presunti tali, diversi da quelli che conosceva e che, alla fine, intuite le sue ricchezze, lo uccisero gettandolo in un pozzo. In realtà, secondo questa leggenda, era stato “accolto” da briganti travestiti da frati fu il cane di un vicino cascinale a condurre i suoi proprietari sulle tracce del pozzo in cui furono ritrovati, in tutto, cento cadaveri compresi quelli dei cinque fraticelli. Una leggenda popolare che, evidentemente, ha preso comunque spunto dalla presenza, certa, di un ostello dedicato a San Miche e di un pozzo di cui, come anticipato, sono stati trovati i resti nel 1951. 

Tante sono poi le narrazioni popolari che parlano di bande di briganti che, su questa via di comunicazione tra Emilia e Liguria, uccisero nel tempo un elevato numero di viandanti. 

Un’altra leggenda, che ad onor del vero pare essere piuttosto fantasiosa, riguarda la presenza di un hotel, famoso sia per la bontà della cucina che per l’eleganza delle sue stanze, in cui gli ospiti, generalmente persone facoltose, sparivano nel nulla. Secondo questa leggenda il locale era caratterizzato dalla presenza di diverse trappole a causa delle quali i malcapitati finivano dapprima nelle cantine e poi venivano terribilmente uccisi, dai proprietari, su un letto di chiodi per poi finire in pasto, dopo essere stati macellati, ai clienti successivi come “cucina rustica”. Tuttavia, un giorno, un frate notò, nel suo piatto, un dito umano e quindi chiamò le autorità che accertarono i drammatici fatti e, da lì, si scatenò la furia delle popolazioni dei paesi vicini che appiccarono il fuoco all’hotel spargendo quindi il sale, sulle sue ceneri, in modo tale che sul posto non potesse crescere più nulla, erigendo quindi una lapide in ricordo delle 99 vittime ed una croce in memoria del frate che aveva permesso di porre fine a quelle brutalità. Come detto, la vicenda ha un forte sapore di fantasioso ma, tra le sue pieghe, conferma ancora una volta la presenza di un luogo che, in passato, ospitava i passanti e dove, probabilmente avvennero fatti di sangue.

Un’altra storia popolare getta le sue radici all’anno 1469. Secondo questa narrazione, una comitiva di viaggiatori che stava transitando sul passo fu assalita e derubata da un gruppo di banditi. Si salvò soltanto un certo Damiano che, per ringraziare il Signore di essere scampato a quell’eccidio, eresse una chiesa e un ospizio/ostello affidandoli ai frati, anche in ricordo dei suoi sfortunati compagni di viaggio. In questo caso la leggenda vuole che i frati, nel tempo, divennero avidi e, bramosi di avere ricchezze, iniziarono a uccidere mercanti e viandanti impossessandosi delle loro mercanzie, gettando i corpi in un pozzo situato a poca distanza dall’ostello. Con la stagione calda, però, il macabro odore delle salme in putrefazione attirò i cani che vivevano nelle vicinanze portandoli sulle tracce del terribile pozzo. I monaci, secondo questa leggenda, di fronte all’atteggiamento degli animali, decisero di fuggire in fretta e furia, portandosi via le ricchezze raccolte. I residenti della zona, presi dalla rabbia per quanto era stato scoperto, decisero quindi di demolire la cappella e l’ospizio, piazzando croci in ricordo degli uccisi. 

Una serie quindi di macabre leggende, che ruotano attorno però a una verità storica: quella legata alla presenza di remote strutture, sorte sin dall’epoca longobarda. Si può anche considerare certa la presenza di banditi, nei secoli passati molto in voga lungo le principali vie commerciali. Come anticipato sin dalle prime righe, la stessa denominazione del posto, lascia intendere che lo stesso è stato al centro, in epoche passate, di fatti drammatici. 

Oggi ci sono abitanti della zona che riferiscono di aver udito, anche in tempi recenti, lugubri lamenti e strani rumori provenire dall’area del valico. Cosa ci sia di vero e cosa di fantasioso non è dato saperlo e, su questo, è corretto sospendere il giudizio. Di certo le numerose e vecchie leggende non possono che alimentare la fantasia; i rumori creati dagli animali e dalla natura fanno poi il resto. Ma le testimonianze ci sono e meritano rispetto così come c’è una storia, antica e importante, di cui tener conto e dalla quale si sono originate le leggende. 

Da evidenziare che il valico è anche sede dell’ex Albergo Centocroci che fu anche una vecchia dogana. Un luogo dal passato importante, oggi lasciato nell’abbandono totale e in uno stato di pesante fatiscenza. Uno “scheletro” in mezzo ai boschi, completamente dimenticato; non certo un bel biglietto da visita per chi transita tra il verde dell’Appennino, magari diretto verso il mare. Ma pur sempre un luogo con una sua storia, per altro rilevante. Infatti la dogana del Centocroci fu di proprietà dei Farnese prima e di Maria Luigia d’Austria poi e ospitò per un mese, nel 1714, la Regina Elisabetta Farnese quando era sposa novella del Re di Spagna Filippo V. Oltretutto testimonianze anche recenti, fornite da persone che si sono recate nei pressi del vetusto edificio e anche da alcuni che vi si sono introdotti, parlano di sensazioni inquietanti, rumori e voci inspiegabili all’interno della struttura. Struttura che, tra gli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, la dogana si trasformò in un albergo, ristorante e sala da ballo; una meta per tanti giovani e meno giovani, anziani e famiglie, che qui trascorrevano le ore di tempo libero ed i momenti di vacanza. Fasti di un passato ormai concluso. Ma di una storia viva, fatta di misteri e leggende che rendono più che mai inquietante questo luogo a mille metri di quota, tra terre di confine. 


FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFICHE

F.Brugnoli, “Tarsogno: memorie storiche e personali”, Edizioni Tigullio-Bacherontius, 2008




giacomobernardi33.blogspot.com





Le foto sono di proprietà dell’autore di Emilia Misteriosa. Per un loro utilizzo è necessario citare la fonte

12 ottobre 2017

PIACENZA, ITINERARI D’AUTUNNO TRA STORIA E MISTERI


di Paolo Panni




Leonardo Da Vinci, nel Codice Atlantico, scriveva che “Piacenza è terra di passo”. La “Primogenita” (così definita perché, nel 1848, fu la prima città italiana a votare con un plebiscito l’annessine al Regno di Sardegna), per la sua collocazione sulla riva destra del Po è, di fatto, la “porta dell’Emilia”, immersa in quello speciale “abbraccio naturale” tra i colli e il fiume. Importante colonia romana prima e rilevante centro medievale poi, è sempre stata una sosta ideale nel passaggio di principi e pellegrini, crociati e templari, commercianti e artisti che qui lasciarono ampiamente il segno. Straordinario scrigno di arte e storia, fede, arte e cultura, ma anche di enigmi, misteri e leggende. Che potranno essere conosciuti, o riscoperti, in questo autunno 2017, grazie ad una serie di appuntamenti domenicali. Si tratta di itinerari alla scoperta dei tesori storici e artistici della città, a cui è per altro possibile prenotarsi rivolgendosi sportello IAT di Piazza Cavalli. Le visite guidate si svolgono nel pomeriggio della domenica ed hanno un costo di 5 euro a partecipante.
La prenotazione è obbligatoria entro le ore 12 della giornata della visita...




Il primo appuntamento è per domenica 15 ottobre con “Lo zodiaco tra fede e superstizione in San Savino e altre chiese”. La partenza è fissata per le 15.30 in Via Alberoni, 35, davanti all'ingresso della Chiesa di San Savino. Il tempo circolare dello zodiaco e delle stagioni, come spiegano anche gli stessi promotori, è un tema caro alla scultura medioevale cristiana che ne sonda e disegna i contorni secondo i dettami religiosi. Il percorso partirà dalla chiesa di San Savino, la cui cripta è decorata da un mosaico pavimentale dove si trovano le rappresentazioni di mesi e segni zodiacali, che in parte si ritrovano nel portale centrale della Cattedrale; infine la visita si concluderà presso la porta solstiziale di San Francesco.




Lo stesso giorno, appuntamento anche con “I palazzi della nobiltà perduta”: questo il titolo del suggestivo itinerario proposto da Fai Giovani Piacenza in occasione della Giornata Fai d'Autunno. Si tratterà di un viaggio alla scoperta di due dei più importanti palazzi nobiliari di Piacenza, entrambi legati alla prestigiosa famiglia Scotti, situati a poca distanza uno dall'altro: Palazzo Scotti di Sarmato, ex distretto militare De Sonnaz, che si trov in via Castello, e palazzo Scotti di Fombio, attuale Collegio Morigi, che ha sede in via Taverna. Sarà un modo per immergersi nella storia e nell'arte tra Medioevo e Rinascimento, scoprendo scorci e spazi inediti, curiosità locali e architetture che hanno sfidato i secoli, adattandosi ad usi e funzioni diversi. Le visite avranno luogo dalle 10 alle 18; saranno a cura dei Volontari Fai Giovani, si ripeteranno ogni 30 minuti (ultimo ingresso 17.30) e sarà richiesto un contributo minimo di 3 euro. 




Ecco, quindi, gli appuntamenti successivi:

Domenica 22 ottobre - Piacenza: la storia nascosta tra vie e monumenti

Domenica 5 novembre - Storie di Santi, Imperatori e Cavalieri: San Lorenzo

Domenica 12 novembre - Una chiesa per Madonna Povertà: San Giovanni in Canale

Domenica 19 novembre - Una chiesa per Madonna Povertà: San Francesco

Domenica 3 dicembre - Vita e morte nella preistoria a Piacenza

Il costo di ogni singola visita è di 5 euro cad; durata 2 ore circa

Per informazioni e prenotazioni è possibile rivolgersi all'ufficio IAT entro le ore 12 del giorno stesso in cui si svolgerà la visita guidata.


Tel. 0523.492001

2 settembre 2017

A spasso tra leggende e misteri: insolito tour nel Parmense


Cliccate sulla foto per leggere l'articolo



Al mare, in montagna o a caccia di misteri? Per gli appassionati di castelli infestati da fantasmi, villaggi spopolati e magari, come Indiana Jones, alla ricerca di tombe d'antichi cavalieri e del Santo Graal, questo scampolo finale di agosto può essere la buona occasione per una vista insolita alla scoperta del parmense, lontana dai più battuti percorsi turistici.

Un buon punto di partenza per pianificare la propria avventura può essere il sito emiliamisteriosa.it.

31 agosto 2017

IL LEGGENDARIO “BUDRI” DI RAGAZZOLA, TRA STORIA E MISTERI, LEGGENDE E TRADIZIONI POPOLARI


di Paolo Panni




Il “budri” di Ragazzola, almeno per gli appassionati frequentatori ed i cultori del Grande fiume, è un luogo che, nella sua semplicità, è un piccolo ma significativo simbolo della golena. Per gli abitanti del borgo della Bassa Parmense è un emblema, un pezzo di storia, a suo modo un “compagno di viaggio” della vita del paese.

Molti si staranno già chiedendo, ma cos’è un “budri”? La risposta è presto data; si tratta innanzitutto di un termine dialettale (ma è bello utilizzarlo proprio perché, per tutti, localmente questo è il suo nome) col quale si va ad identificare il “bodrio”, vale a dire un piccolo specchio d’acqua (uno stagno o una palude) che si è formato in seguito ad una piena del Po. Da queste parti, va detto, di inondazioni del fiume ne sanno qualcosa e la storia ne è piena. In occasione delle sue esondazioni, il Po è solito creare voragini, più o meno grandi, all’interno della golena lasciando, quando si ritira, dei “laghetti” (i bodri appunto) che rimangono alimentati, nel tempo, grazie alle falde acquifere e, quindi, alla presenza di acqua sotterranea. La falda acquifera viene raggiunta al momento in cui la cascata d’acqua che si genera nel punto di rottura dell’argine si abbatte al suolo scavando fino a 10-15 metri di profondità (se non anche di più). A lungo andare, poi, l’abbassamento della falda e l’accumulo di sostanza organica nel budrio isolano lo specchio d’acqua dalla sua “sorgente”, facendo diventare lo stesso luogo uno stagno destinato a prosciugarsi.

Le golene, sull’una e sull’altra sponda, per l’intero corso del fiume, sono ricche di questi stagni, rimasti a testimoniare piene del passato (ecco che possono quindi essere considerati pagine di storia). Si tratta di aree naturali di pregio, di grande importanza per la flora e la fauna del territorio. 





Tra i bodri più antichi, la cui origine si perde nella cosiddetta “notte dei tempi” c’è, appunto, quello di Ragazzola, almeno per quanto riguarda la zona emiliana. Si trova ai piedi dell’argine maestro e, purtroppo, rischia di scomparire. Se in decenni passati era infatti di grandi dimensioni, luogo privilegiato per l’attività dei pescatori di tutta la Bassa, col tempo si è sempre più ridotto ed ora rischia addirittura di scomparire. La siccità 2017 gli ha probabilmente dato il colpo di grazia.

Senza esitazione ci sentiamo di evidenziare e, in qualche modo, di gridare che “Il budri non deve morire”. Non deve morire perché è un pezzo importante del passato della Bassa emiliana, non deve morire perché è un simbolo della Bassa Parmense, non deve morire perché è un’area di pregio ambientale e di rilevanza storica.

Ci sono poi, e non è poco, una serie di leggende e di enigmi che lo riguardano da vicino. Addirittura da questo luogo potrebbe essere nato il nome del paese. Leggende che potrebbero essere semplicemente frutto della fantasia popolare ma che, come spesso accade, nella loro origine più antica potrebbero celare qualche pagine di storia, andata perduta. 




Va detto, e non è un particolare secondario, che nei secoli passati Ragazzola non si trovava esattamente dove sorge ora. Il nucleo più antico si trovava in una posizione più ad ovest rispetto a quella attuale, verso Pieveottoville. Non a caso, ancora oggi, si trova il “Viottolo Piazza Vecchia”, a ricordare evidentemente il precedente centro storico del borgo. Borgo che, nei secoli, come gli altri circostanti, ha subito fortemente le influenze e, in particolare, le piene del Po. Va ricordato che nei secoli passati non esistevano gli argini e, quindi, le inondazioni del fiume, oltre ad essere più frequenti, avevano chiaramente effetti più pesanti sui paesi e sulle comunità. Vi sono interi paesi che, nei secoli, sono stati addirittura divorati dal fiume; tra questi, rimanendo nelle immediate vicinanze, i vari Polesine San Vito, Polesine Manfredi, Tolarolo e Arzenoldo.

Venendo alla leggenda ufficiale, si dice che nel luogo dove oggi sorge il “budri” si trovassero un tempo la vecchia chiesa e il cimitero del paese, che sarebbero stati distrutti durante una inondazione, tanto improvvisa quanto tremenda del Po e che in quel momento si trovasse, all’interno del sacro edificio, una ragazza, che sarebbe stata risucchiata dall’acqua e dal fango, insieme a tutta la chiesa, sprofondando così nel sottosuolo. Da qui e, quindi, dal “ragazza sola” sarebbe nato il nome del paese: Ragazzola. Ma le narrazioni popolare sembrano non concordare troppo tra loro. Un’altra leggenda, infatti, dice che nella vecchia chiesa vi fosse in corso un matrimonio clandestino, o comunque contrastato dai familiari degli sposi, e che in quel momento fu la piena dirompente e improvvisa del Po a spazzare via tutto, originando comunque, poi, il nome del paese. Infine, altra leggenda, vuole invece che una devastante inondazione del Po abbia spazzato via tutto il paese, uccidendo i suoi abitanti. Secondo questa leggenda rimase in vita soltanto una ragazza. Da qui il nome Ragazzola.

Narrazioni, dunque, che non concordano tra loro, ma che hanno
anche alcuni elementi in comune: su tutti il fatto che, all’origine della vicenda vi sia stata una piena del Po; la presenza di una chiesa e, comunque, di un fatto talmente importante da aver creato l’elemento di base per dare il nome al paese.

Cosa c’è di vero e cosa di falso? Domanda a cui, come sempre, è difficile dare una risposta. Dicerie popolari e pezzi di storia, ancora una volta, si mescolano. Un mix affascinante, misterioso, che rende ancora più interessante la storia e l’importanza del “budri”.

Una leggenda che, tra l’altro, si lega ad un’altra simile del Parmense, vale a dire quella del Lago di Varsi dove, secondo le narrazioni popolari, sarebbe addirittura sprofondato un convento.

Della presunta chiesa che sorgeva laddove oggi si trova il “budri”, va detto, sembra non essere mai stato trovato nulla, nemmeno un mattone, neppure durante le arature dei campi circostanti. Ma di questo sacro edificio si parla, da secoli. 



Di piene, va aggiunto, ce ne sono state tante. Verrebbe da pensare a quella devastante del 1801, passata decisamente alla storia per Ragazzola. Ma all’epoca il paese portava già questo nome e quindi sembra necessario dover andare ancora più indietro nel tempo. Così, attingendo direttamente agli archivi e alla storia della Bassa Parmense, emerge che le maggiori piene del Po sono avvenute negli anni 1152, 1280, 1294, 1386, 1394, 1454, 1467, 1470, 1474, 1480, 1680, 1685, 1687, 1702, 1741, 1755, 1758, 1763, 1765, 1772, 1801, a cui si aggiungono quelle più recenti degli anni 1951, 1977, 1994 e 2000. Tra le maggiori spiccano quella del 1741 (in occasione della quale, per mettere in guardia le popolazioni, le campane suonarono a martello per tre giorni); quella del 1474, che durò qualcosa come cinquanta giorni, e quella del 1680. In occasione di quest’ultimo evento calamitoso il Po corrose circa duecento biolche parmigiane di terreno e, sette anni dopo, altre trecento. Addirittura il fiume in quegli anni, a causa delle grandi piene, deviò il proprio corso giungendo in prossimità della vecchia chiesa (forse quella dove oggi sorge il “budri”?) e dell’osteria. La nuova chiesa fu realizzata a circa un chilometro di distanza e la vecchia, storia alla mano, fu lasciata andare in rovina (rimasero solo, sempre storia alla mano, il sagrato con poca terra e una maestà dove si trovava la Madonna del Rosario). Non è da escludere che la leggenda del “budri” di Ragazzola affondi le proprie radici ad una di queste inondazioni, in particolare a quelle del 1680 e del 1687. C’è da aggiungere, e lo confermano anche i testi storici, che Ragazzola ebbe senz’altro una chiesa in epoca remota, ma a livello di documentazioni ufficiali la prima figura in una pergamena cremonese (L.Astegiano: Codex diplomaticus Cremonae) datata 27 giugno 1271 (allora Ragazzola faceva parte della diocesi di Cremona). Si tratta di un foglio che parla di una lite intercorsa tra Umberto De Grondono, chierico e sindaco del monastero di Castione Marchesi, e la nobile famiglia dei Sommi, feudatari del vescovo di Cremona. In quella documentazione il borgo è definito come “Carpeneta” o “Carpaneto”, ben diverso quindi dal successivo “Ragazzola”. Se dunque, da una parte, è certo che nel XIII secolo la borgata aveva il nome di “Carpeneta” o “Carpaneto”, è altrettanto vero che nei secoli successivi la denominazione è stata radicalmente modificata in “Ragazzola”. Da cosa è stata causata questa modifica? Forse da un fatto storico da cui è poi nata la leggenda?

Sempre attingendo alle fonti storiche, a proposito della vecchia chiesa, è certo che fu fatta costruire dalla nobile famiglia Pallavicino che ne aveva il giuspatronato (questo significa che erano i Pallavicino a vantare il diritto di presentazione del sacerdote che doveva reggerla). La nomina finale spettava, tuttavia, al capitolo della collegiata di Pieveottoville, chiesa matrice del distretto.

Vi è poi, passando a tempi molto più recenti, un altro fatto storico, molto tragico, legato ancora una volta a questo specchio d’acqua. E’ noto, localmente, che dopo il secondo conflitto mondiale, numerose armi, ordigni e munizioni varie, furono gettati tra le sue acque per farli sparire. Nel 1951, pochi mesi prima della storica alluvione del Po, due ragazzi del paese trovarono, proprio nei pressi del “budri” alcuni ordigni, rimanendo uccisi dalla loro improvvisa esplosione. Un fatto molto tragico, per la piccola borgata rivierasca, passato chiaramente alla storia e legato, ancora una volta, a questo specchio d’acqua che oggi rischia la scomparsa.

Il “budri”, va evidenziato ancora una volta, non deve morire, come non deve morire la storia, condensata da affascinanti leggende, che lo riguardano.



FONTI BIBLIOGFRAFICHE E SITOGRAFICHE

F.L. Campari: “Un castello del parmigiano attraverso i secoli. Pallavicini, Rossi e Rangoni”, Battei 1910 e ristampa 1989

E.Bandini: “Buon compleanno, Don Camillo!”, I Libri del Borghese 2016

D.Soresina, “Enciclopedia Diocesana Fidentina. Vol. II Città e Paesi”Arte Grafica Fidenza 1974

D.Soresina, “Enciclopedia Diocesana Fidentina. Vol. III Le parrocchie i parroci le chiese” Arte Grafica Fidenza 1979

bassaparmense.it



SI RINGRAZIA BRUNO PEZZINI PER LA PREZIOSA COLLABORAZIONE E PER LA VECCHIA FOTO DEL “BUDRI” DATATA 1931.

LE ALTRE FOTO SONO DI PROPRIETA’ DELL’AUTORE E DELL’ASSOCIAZIONE EMILIA MISTERIOSA.

PER IL LORO UTILIZZO E’ NECESSARIO CITARE LA FONTE.

8 agosto 2017

ZIBELLO, MISTERI E “PRESENZE” NEL PALAZZO PALLAVICINO?


di Paolo Panni




Strani spostamenti di sedie e oggetti, rumori di cavalli e di carrozze, ombre che passano da un ambiente all’altro; addirittura una bambina che ride in soffitta. Sono numerose le testimonianze dirette di fatti curiosi, difficilmente spiegabili ed enigmi riguardanti il Palazzo Pallavicino, simbolo indiscusso di Zibello. Non c’è solo il vicino ex convento (ed ex ospedale civile) dei Padri Domenicani a poter essere considerato interessante, circa una presunta attività paranormale (con testimonianze che anche in questo caso abbondano e con una indagine compiuta da Emilia Misteriosa che, per risultati ottenuti, resta ad oggi una delle maggiori). Anche il Palazzo Pallavicino, pregevole ed imponente monumento che svetta nella piazza principale del borgo, testimonianza preziosa di un passato che per Zibello è stato indubbiamente glorioso, sembra essere un notevole “scrigno” di misteri.

Costruito, con ogni probabilità, in diverse fasi, fra il XV ed il XVI secolo dai Marchesi Pallavicino, si trovava originariamente all’interno delle vecchie fortificazioni che, successivamente furono distrutte. Con ogni probabilità (confermata, forse, anche dalle fondazioni particolarmente profonde ed articolate) venne realizzato sui resti dell’originaria rocca demolita, insieme a buona parte dell’antico borgo, nel 1429, da Orlando Pallavicino (che aveva tolto il maniero al cugino Donnino). 

A volerlo e, quindi, a iniziarne l’edificazione fu Giovan Francesco Pallavicino (1457-1498), capostipite del ramo di Zibello, e figlio di Rolando il Magnifico, che diede avvio anche alla ricostruzione della rocca, a sua volta andata poi distrutta nel terzo decennio del XVI secolo e di cui non restano che pochissimi e poveri frammenti all’interno di aree private, alcuni interessanti sotterranei e un profondo pozzo, riscoperto alcuni anni fa durante lavori di sistemazione della piazza dedicata a Giovannino Guareschi. Pozzo poi ricoperto, perché situato proprio di fronte alla porta di una abitazione, ma di cui, in esclusiva, Emilia Misteriosa è in grado di presentarvi, di seguito, l’immagine…




La nuova rocca era destinata ad uso non solo militare ma anche ad ospitare la residenza dei signori, ospiti illustri (sembra che vi soggiornò anche il duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti, durante una navigazione sul Po a bordo di un bucintoro, nel luglio 1493, accolto con grandi onori da Giovan Francesco). Ma non è finita perché Giovan Francesco, membro del Consiglio Ducale di Milano alla corte degli Sforza (legato anche a Lodovico il Moro) intraprese pure altre importanti opere, a partire dalla pianificazione della contrada principale, per proseguire con la costruzione del palazzo podestarile (parte integrante dell’odierno Palazzo Pallavicino), del convento dei domenicani, della chiesa parrocchiale e la ristrutturazione dell’antica chiesa (precedente parrocchiale) della Beata Vergine delle Grazie. Purtroppo la sua morte prima (avvenuta il 20 dicembre 1497 a Zibello, un mese dopo aver fatto testamento) e quella del figlio Federico (1502) e del nipote Giovan Francesco Juniore (1514) non consentì di completare la riorganizzazione complessiva di Zibello e, anzi, queste circostanze influirono molto negativamente soprattutto sulle sorti del castello che fu al centro di infinite dispute di natura ereditaria e andò lentamente in rovina.

Da evidenziare che Giovan Francesco ebbe dalla moglie, Giacoma Brandolini, numerosi figli tra cui Gaspare, Polidoro, Federico, Nicolò e Bernardino. Quest’ultimo è passato alla storia per le sue boccaccesche avventure e, da secoli, si dice che il suo fantasma vaghi tra le mura del castello di Varano Melegari, dove visse a lungo, continuando a distinguersi per la sua sregolatezza, per la sua passione per le donne, macchiandosi per altro di svariati delitti.

Va anche aggiunto, in tema di misteri, che è andata completamente perduta la tomba del capostipite del ramo Pallavicino di Zibello. C’è chi sostiene che si trovi, da qualche parte, nell’ex convento e chi invece la indica all’interno della chiesa parrocchiale (dove in origine era stato sez’altro sepolto, ma pare che successivamente sia stato traslato nel convento domenicano). Fatto sta che, da secoli, se ne è persa ogni traccia. Di lui però è rimasta la memoria di una persona buona e devota, giusta, prudente e benigna.

Per quanto riguarda il Palazzo Pallavicino, questo era anticamente collegato alla cinta muraria (entro la quale si trovava) ed era posto in modo asimmetrico rispetto al castello, ma in asse con la grande chiesa parrocchiale. Anche tramite una rapida osservazione è possibile costatare che, nonostante i numerosi rimaneggiamenti, è composto da una parte più vecchia, un tempo sede della podesteria comunale, ed una più recente caratterizzata dall’ampio e suggestivo porticato. Da sempre centro civile del borgo, ma anche luogo di mercato, di commercio e quindi di raduno degli abitanti. Arricchito dall’ottocentesco, pregevole teatro, aveva, al piano terra, anche le carceri. Lo conferma nelle sue preziose memorie don Bartolomeo Zerbini (parroco dal 1866 al 1874) che le descriveva come “poco arieggiate e insalubri” e affermava di aver visto, in una di esse “un grande e pesante tavolo di rovere (specie di lettiera) nella cui estremità inferiore stavano due grossi ceppi fra cui si teneva assicurato ai piedi, di notte, il prigioniero”. 

Un luogo, dunque, anche di sofferenza e di memorie. Infatti sui capitelli delle colonne sono rimaste incise alcune scritte murali (oggetto a suo tempo anche di approfondimento e catalogazione da parte di un gruppo di studenti dell’Istituto di Disegno della facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Parma), da considerare vere e proprie pagine di storia che ricordano, tra le altre cose, la terribile alluvione del Po del 1705 e le pestilenze del 1629 e del 1630 (quest’ultima fu quella descritta anche da Alessandro Manzoni che provocò a Parma oltre 16mila vittime e, nel contado, circa 70mila).

E’ anche noto che Giovan Francesco Pallavicino Junior, alla sua morte, lasciò il palazzo alle sorelle, Ippolita e Giacoma-Laura. Una su tutte, però, Argentina che vi teneva i propri oggetti d’uso e che, per disposizione testamentaria del fratello, fu privilegiata nella successione. Anche questo, tuttavia, fu al centro di una lunga e intricata contesa dal momento che era andata in sposa al celebre capitano Guido Rangoni e questo però la escludeva dagli Statuti di Parma che non consentivano la successione ereditaria della donna sposatasi fuori dal territorio comunale di Parma. Argentina palla vicino (nata a Zibello nel 1502 e morta nella stessa Zibello il 28 luglio 1550) resta tuttavia una figura di spicco nella storia del palazzo, per avervi vissuto, e appunto per essere andata in moglie a Guido Rangoni. La storia ricorda che si dilettò in poesia e botanica ed ebbe rapporti anche con il famoso poeta toscano Pietro Aretino. Donna di particolare bellezza, rimase vedova nel 1543, riuscì a recuperare il dominio di Zibello prima di morire. 

Curiose, interessanti e per certi versi inquietanti sono le testimonianze che si tramandano e che son accadute, negli ultimi trent’anni, a persone che hanno vissuto o lavorato o semplicemente hanno frequentato il Palazzo Pallavicino. C’è chi riferisce di un episodio accaduto qualche anno fa, durante una serata lavorativa, evidenziando di aver udito una bambina ridere, al piano superiore, verosimilmente laddove si trova il solaio. Ma l’immediato controllo (anche per il timore che qualcuno si potesse essere infilato all’interno del palazzo) confermò che in solaio non si trovava nessuno, men che meno una bambina. 

Una commerciante ambulante, in occasione di un evento gastronomico, salendo negli uffici al piano di sopra, ha invece fatto sapere di aver visto un’ombra passare da una stanza all’altra. Anche in quel caso il timore iniziale fu quello legato alla presenza di un eventuale intruso. Ma l’immediato controllo permise di appurare che negli uffici non si trovava nessuno se non alcuni “addetti ai lavori” della manifestazione. 

Un’altra testimone riferisce invece di un episodio, accaduto nei primi anni del Duemila, di lunedì sera, intorno alle 23, con rumori provenienti dalla zona in cui si trova il teatro. Da evidenziare, particolare non irrilevante, che il bar che si trova a ridosso del teatro, così come gli altri locali che hanno sede nel palazzo (suddiviso da anni fra più proprietari), il lunedì sera sono tutti chiusi. Quei rumori furono avvertiti anche da altre persone presenti, al punto da chiedersi l’un l’altro chi di loro li potesse aver provocati. Ma nessuno si trovava in quel momento nella zona del teatro, che era completamente chiuso. “Quei rumori – riferisce la nostra testimone – durarono almeno mezz’ora. Se ne sono sentiti anche in altre occasioni, ma così forti come quella volta mai”. E’ vero, va detto, che il palazzo sorge nel pieno centro del paese, in una zona parecchio abitata e quindi i rumori potrebbero trovare svariate spiegazioni. Ma il fatto che siano stati avvertiti, quella notte, da almeno tre persone che si trovavano in punti diversi del palazzo, in una fascia oraria e in un giorno in cui tutte le attività, compresa quella di bar, erano chiuse, va considerato quantomeno come curioso. 

Altri ancora riferiscono che, da bambini, non sono mai riusciti a giocare con i loro amichetti (che vivevano nell’appartamento dove oggi sorge la sede dell’associazione Strada del Culatello di Zibello) nel locale al piano superiore adibito a solaio (nel quale sarebbe stata avvertita la risata di una bambina) a causa delle pesanti sensazioni che si avvertivano. Sensazioni pesanti avvertite, anni fa, ogni volta che transitava dal cortile interno, anche da un’altra persona che, per parecchio tempo, ha vissuto nel palazzo. 


Altro episodio molto interessante, ma di cui si è persa ogni traccia, risale agli anni Ottanta del Novecento. Sempre uno dei residenti, approfittando di una sera in cui tutti i locali erano chiusi, decise di lasciare acceso un vecchio registratore, di quelli con le audiocassette. Il giorno successivo si rese conto che erano stati registrati rumori come di cavalli e di calessi e una specie di brusio come se in piazza ci fosse stato un mercato o comunque un movimento di gente, Peccato che cavalli e calessi sono da decenni scomparsi dalla piazza di Zibello e che, quella sera, di gente ne era passata ben poca. Purtroppo dell’audiocassetta, che poteva risultare di grande importanza per un approfondimento, si è persa ogni traccia. 

“Circa due anni fa – ci ha fatto sapere lo stesso testimone – mentre mi trovavo a dormire nel palazzo, ho sentito più volte, una voce femminile chiamarmi per nome. Era la voce di una giovane donna, di un’età indicativamente compresa fra i 30 e i 40 anni. Ma nessuna donna si trovava in quel momento nei paraggi e, non appena io ho chiesto di essere lasciato in pace di poter dormire, non ho più udito nulla. Ricordo un’altra volta – ha aggiunto – in cui eravamo in tre e, sentendo dei rumori al piano terra, siamo corsi di sotto, attrezzati tra l’altro di mazze e bastoni per la paura che fossero entrati i ladri, ma alla fine non c’era nessuno e tutti i negozi erano chiusi”. Altro fatto, riferito da un ulteriore testimone, riguarda un rumore, un chiaro spostamento di sedie, avvertito una sera. “Il giorno successivo – spiega – fu naturale chiedere al proprietario del locale se aveva fatto una festa privata, ma ci rispose che oltre a non aver fatto alcuna festa, quella sera non aveva nemmeno messo piede nella sua attività”.

Testimonianze curiose, affascinanti,per molti versi inspiegabili. Come sempre, secondo lo stile di Emilia Misteriosa, non si fanno conclusioni e non si danno giudizi di alcun genere, limitandosi appunto a definire curiosi e interessanti questi accadimenti, che annoverano Zibello fra i luoghi più misteriosi del Parmense, se si tiene conto anche delle vicende legate all’ex convento domenicano e ad un paio di abitazioni private della zona. Emilia Misteriosa, che ha già effettuato una prima indagine all’interno di alcuni locali del palazzo, si riserva naturalmente di approfondire ulteriormente misteri e fatti inspiegabili legati all’importante edificio, simbolo ed emblema della gloriosa storia locale.



FONTI BIBLIOGRAFICHE 


Amministrazione Comunale: “Zibello: la storia, la gente,le opere, le tradizioni”, Arte Grafica Fidenza, 1985. 

Amministrazione Comunale: “Zibello – Città dei sapori, Città d’arte, Città Slow. Arte – storia – gastronomia”, Andromeda editoria e comunicazione, 2009 

M.Calidoni, M.C. Basteri, G.Bottazzi, C.Rapetti, S.Rossi, M.Fallini: “Castelli e Borghi – Alla ricerca dei luoghi del Medioevo a Parma e nel suo teritorio”, Mup Editore, 2009 

D.Soresina: “Enciclopedia Diocesana Fidentina. Vol. III. Le parrocchie, i parroci, le chiese”: Arte Grafica Fidenza, 1979. 



SI RINGRAZIANO FABIA FAVA E DAVIDE CAPPA PER LA PREZIOSA COLLABORAZIONE. FABIA FAVA ANCHE PER AVER PERMESSO LA REALIZZAZIONE DELLE FOTO DEI SOTTERRANEI.


LE FOTO SONO DI PROPRIETA’ DELL’AUTORE E DELL’ASSOCIAZIONE EMILIA MISTERIOSA. PER IL LORO UTILIZZO E’ NECESSARIA LA RICHIESTA DI AUTORIZZAZIONE.

14 luglio 2017

L’ISOLA DESERTA LUNGO IL TARO DOVE IL MISTERO E’ QUELLO DEL TEMPO CHE SI E’ FERMATO


di Paolo Panni





Un luogo sperduto dove la natura si è ripresa, con forza, i suoi spazi. Non ci sono storie di fantasmi o di alieni, di gnomi o di folletti, non ci sono leggende tramandate dalla gente del fiume. Il mistero, qui, nel “cuore” della Bassa emiliana è quello del silenzio, del tempo che si è fermato, dei ricordi “vivi” di luoghi vissuti, dei segni di gente laboriosa che ha conosciuto, nel tempo, la vita dura della campagna, del lavoro dei campi, della conduzione delle stalle, in quegli ambienti dove non ci sono domeniche o festivi, dove non c’è Natale o Pasqua e dove il lavoro occupa larga parte del tempo. 

La località è definita “Le Giare” (un nome piuttosto comune ad altri ambienti della pianura parmense) e si trova tra Gramignazzo e Borgonovo di Sissa Trecasali, a due passi dalla spettrale casa appartenuta in passato a Bruno Pavesi, arso vivo nella sua stessa dimora (dove oggi, a detta di alcuni, si aggirerebbe il fantasma di quell’uomo solo che per tanti anni l’ha vissuta): luogo, quello, di cui Emilia Misteriosa si è già occupata. 

Alle “Giare”, è proprio il caso di dirlo, il Taro ha fatto il bello ed il cattivo tempo. Una decina di anni fa, durante una delle due maggiori piene, si è letteralmente portato via una vasta porzione di terreno creando un “braccio secondario” e formando, di conseguenza, un’isola. A nulla sono valsi, nel tempo, i tentativi di realizzare passaggi o guadi; il fiume ha sempre avuto ragione e si è costantemente fatto largo. Il destino, che per quell’area sembrava decisamente segnato, si è materializzato in tutta la sua evidenza. Campi e abitazioni (cinque in tutto) sono rimasti isolati del tutto ed il tempo, così, si è fermato. Non ha seguito i ritmi veloci della tecnologia e ha lasciato che la natura, lentamente, si riprendesse i suoi spazi. 

Emilia Misteriosa, con una propria delegazione, è stata sul posto, raggiungendolo ovviamente in barca, grazie alla disponibilità di un esperto barcaiolo del posto. Un uomo sanguigno, di poche parole, capace di poche ma sagaci battute, una miniera di saperi che in buona parte tiene per lui. 

Quella compiuta non è stata altro che una semplice esplorazione conoscitiva, laddove nessuno metteva piede da un decennio. 

Il luogo si è presentato in tutto il suo misterioso fascino, animato solo dal canto delle cicale e dei grilli e dal cinguettio continuo dei gruccioni, “abitanti” stabili delle sponde che costeggiano l’isola. Nelle case coloniche tutto “parla” di coloro che le hanno vissute. Gente laboriosa e instancabile, semplice ma tenace, dalla scorza dura ma dal cuore buono. Gente che si è lasciata “scavare” le mani e “scolpire” le braccia dalla zappa e dal badile. Sotto i fienili, i carri di una volta, in legno, capaci di far gola a qualsiasi museo etnografico. Ci sono ancora i vecchi fornelli, quelli su cui si cuocevano pietanze semplici ma nutrienti. 

C’è un vecchio cappello, di quelli che una volta si mettevano alla domenica per andare a messa col vestito buono, uno sgangherato motorino sbranato dalla ruggine, utilizzato forse da qualche giovane per scorrazzare da una carraia all’altra; ci sono i vecchi camini in pietra, di fronte ai quali nelle fredde e nebbiose sere invernali si cercava un po’ di calura sorseggiando magari un buon bicchiere di vino rosso, chiacchierando coi familiari dei pochi fatti del giorno conditi da qualche aneddoto. Al centro dell’isola c’è ancora una grande corte, con un paio di storiche e grandi stalle degne di un set cinematografico. Corte che lascia intendere l’importanza e il rango di chi, un tempo, la abitava. A poche centinaia di metri, un rudere sembra annunciare in anticipo l’inesorabile destino a cui il luogo sembra dover forzatamente andare incontro. Tra una abitazione e l’altra, lontano da qualsiasi stile urbanistico, grandi appezzamenti di terra, che per anni e anni hanno ospitato le tipiche coltivazioni della Bassa, oggi invasi invece dalle vegetazione spontanea che, lentamente, sta avvolgendo tutto. 

Un luogo magico, senza tempo, dove le sensazioni, chiaramente soggettive, abbondano lasciando spazio a tante interpretazioni. Dove anche il passato è un mistero perché poco, o nulla, si conosce della storia di questa vasta area golenale. La corte, elemento architettonico più significativo di tutta l’isola, è a sua volta relativamente recente. Non è infatti visibile nei catasti napoleonici e quindi può essere datata al periodo compreso tra l’Ottocento e il Novecento. Di certo, viste le dimensioni, è stata abitata e vissuta da molte persone, teatro quindi di un numero significativo di vicende umane della Bassa. 

Oggi il Taro, uno dei principali corsi del Parmense, che dalla montagna scorre vero la pianura, a ormai una manciata di chilometri dal suo “incontro” con il Po, avvolge e nasconde la storia, le vicende, il passato, il presente e il futuro di quest’isola deserta. Uno dei pochi luoghi della Pianura Padana in cui il tempo si è fermato e dove, appunto, il mistero più grande è dato dal silenzio