26 giugno 2014

Intervista sul Paranormale - La Battaglia

di Simona Gonzi





INTERVISTA SUL PARANORMALE

Luigi ha passato da tempo la sessantina ma ha ancora un’energia e una vitalità da far invidia a un quarantenne. Capelli tagliati a spazzola, ha mantenuto il fisico asciutto e robusto di quando lavorava a Cinecittà.
Oggi non recita più, la vita gli ha assegnato una parte che non si è scelto ma a cui non si è sottratto...

LA BATTAGLIA

Luigi è un uomo gentile, dallo sguardo attento e penetrante. Lo puoi conoscere solo col passaparola, è un sensitivo che non si fa pubblicità e non chiede soldi. Il male colpisce più di quanto venga ammesso e raccontato: in molti cercano Luigi, dopo aver saputo di lui. Persone normali alle quali, a un certo punto, succede qualcosa di inspiegabile che stravolge la loro vita:
<Il male e il bene vanno di pari passo, il male grida di più ma il bene è al suo fianco...>, ci dice Luigi, che da molto tempo ha ricevuto la “licenza” per combattere questa battaglia. Proprio come gli disse un prete quando, venuto a conoscenza della sua storia, gli chiese cosa avrebbe voluto fare nella vita: Luigi avrebbe voluto fare il pediatra, il medico dei bambini, ma venendo da una famiglia povera non poteva permettersi gli studi.
Don Amos gli rispose <Non ti preoccupare, la licenza te l’hanno data dall’alto.> Era uno che la sapeva lunga, il vecchio don Amos: dietro le rughe del suo viso mite da parroco di campagna nascondeva la determinazione di chi il male era abituato a combatterlo, nel nome del Signore. Luigi a sua volta combatte le proprie battaglie, per chi lo cerca ma spesso anche per chi ancora non sa, per chi è in pericolo, per chi ha bisogno di un aiuto o per chi non c’è più ma ha ancora bisogno di una mano. Persone colpite da fatture, malocchi, pratiche nere, oppure persone in pericolo di vita alle quali Luigi arriva grazie all’esperienza dei viaggi astrali. Amici, conoscenti ma non solo, qualcuno arriva anche da lontano dopo aver appreso delle incredibili capacità di quest’uomo che vive solitario in un angolo poco conosciuto della campagna piacentina, stradine secondarie e campi coltivati, una manciata di case sparpagliate in una pianura dominata da un antico castelo abbandonato. Luigi accoglie tutti nella sua casa, ma prima di aiutarli parla con loro, “sente” cosa c’è nel loro cuore, e se qualcuno sta barando gli viene chiesto gentilmente di andarsene. Gli altri vengono ascoltati, liberati dal loro problema:
<Ma non sempre è facile. Il male è molto potente, a volte.>


Luigi, come hai cominciato a entrare in contatto con il mondo dell’invisibile?

<Da bambino vedevo un’entità che sembrava un bambino e io ci parlavo, pensando che anche gli altri ce l’avessero vicino… ma mi sbagliavo e per questo a scuola mi picchiavano. Sempre durante l’infanzia c’è stato un periodo in cui stavo malissimo: mia madre non riusciva a capirne la causa, così mi portò a Piacenza, da uno che toglieva le fatture. Mi fece stendere, mi avvolse in un telo bianco e, con l’immagine di Sant’Espedito di fianco, iniziò a recitare il Rosario, e poi queste parole, che non scorderò mai: “Devi rientrare nel ventre di tua madre”. In pratica stavo morendo per una fattura e lui mi ha salvato la vita, smisi di parlare per un anno dopo questa terribile esperienza. Gli anni seguenti furono molto irrequieti per me, diventavo sempre più solitario e volevo andarmene da queste campagne, tutto mi andava stretto. Fui affascinato dal mondo del cinema e per questo mi trasferii a Roma, dove conobbi molti personaggi famosi dell’epoca, mantenendomi con qualche particina o servizio fotografico. Ma c’era qualcosa che non andava in quel mondo, lo percepivo, e la sensazione è diventata certezza quando davanti a un crocefisso, in una chiesa di Roma, ho visto un mare di sangue. Era come se Cristo mi stesse dicendo: “Guarda quanto male mi hai fatto”. Chiusi definitivamente con il mondo del cinema, mi trasferii a Sanremo e lì imparai a leggere le carte.>

Poi aggiunge, con un sorriso sornione:

<Ma mi raccomando, non devi credere alle carte. Io le faccio, ma sono solo carte... tarocchi. Non bisogna lasciarsi condizionare.>
Parole che sembrano una contraddizione, ma che nascondono il vero messaggio: <Per prima cosa bisogna credere in Dio... pregare. E’ soprattutto grazie a questo che il nostro destino può cambiare in meglio... che il male può essere sconfitto. Ogni mattino, quando si posano i piedi dal letto, bisogna pronunciare questa frase, che crea come uno scudo dal maligno: “Provvidenza divina, provvedi”.>
Luigi è un caleidoscopio di molte capacità, filtrate da un legame speciale con la madre, che quando lui era piccolo, prima di andare a lavorare nella stalla, “interrogava il fuoco” per sapere che giornata sarebbe stata: se il fumo andava su dritto sarebbe stata buona, se andava a destra brutta:
<Ho visto fare questa cosa a mia madre mille volte e il fumo difficilmente sbagliava pronostico. Tre giorni prima di morire mia madre e io facemmo lo stesso identico sogno, in cui si annunciava quello che sarebbe successo… il giorno stesso della sua morte, mia madre si preparò come se dovesse partire… si fece il bagno, si cambiò e quando mi vide uscire da casa mi salutò promettendomi di venirmi a trovare…e lo ha fatto tante volte, suonando dei campanelli…>

Luigi, quindi esiste l’aldilà?

Esiste sì e non dobbiamo aver paura della vita oltre la morte. Io ho visto, grazie a mia madre che mi ha portato di là una notte: è un mondo di luce, bianca, bellissima, e io ero come una piuma, una sensazione magnifica. Ho visto le persone che conoscevo e che non sono più con noi, erano come quando ci hanno lasciato. Ho chiesto a mia madre se si soffre nel passaggio lei mi ha spiegato di no perché pochi secondi prima che il cuore si fermi lo spirito si stacca dal corpo e fluttua verso il mondo di luce.

Perché le persone ti cercano?

Mi cercano perché non stanno bene, non sono in armonia con se stesse, hanno atteggiamenti in cui non si riconoscono, hanno rabbia incontrollabile, disturbi al sonno. Io le faccio venire a casa mia e come entrano inizio a percepire le prime cose: per esempio, quando sono colpite da una fattura hanno occhi incantati, sguardi assenti… mi faccio spiegare da loro perché hanno sentito la necessità di contattarmi e poi inizio il percorso. Poco tempo fa è arrivato qui un signore che diceva di non riconoscersi più: aveva degl’occhi impressionanti, sbarrati, fissi, quasi se il suo sguardo fosse rivolto al maligno. Dopo aver parlato con lui ho avuto per ore un mal di testa insopportabile, avevo assorbito tutta la sua negatività, e lui più passava il tempo più si rilassava al punto quasi di addormentarsi. Come se il macigno che comprimeva il suo spirito si fosse pian piano alleggerito. Poi mi sono fatto portare i cuscini del letto dove dormiva abitualmente, aprendoli ho trovato la lana attorcigliato a serpente, segno inconfutabile che qualcosa di molto potente lo aveva colpito per fargli male…molto male. E di male effettivamente gliene aveva già fatto: quest’uomo non riusciva più ad avere rapporti sereni con nessuno, era diventato altro da sé. Era in balia di qualcosa di molto potente: gli ho chiesto, come sempre, di cercare il contatto con la fede… pregare e aver fede è comunque uno schermo. A volte servo la Santa Messa come se fossi un chierichetto. I sacerdoti sanno quanto credo in Dio.

Quindi l’esercizio del male ha una propria sintamotologia… ma fino a che punto può arrivare?

Ci sono persone che possono volere addirittura la morte di qualcun altro, e purtroppo queste cose esistono davvero. Combattere questa battaglia è faticoso, impegnativo... insomma non è uno scherzo e bisogna essere pronti. Mi è capitato anche di essere a tu per tu con il demonio, un’esperienza terribile, e in questi casi comunque è indispensabile l’intervento di un esorcista. Ricordo una donna toscana qualche anno fa che non sapeva più come fare e a chi rivolgersi per eliminare quel terribile malessere che aveva dentro di sé. L’ho accompagnata da un prete qui della zona, e durante l’esorcismo ho visto cose terrificanti: gridava, si contorceva come un serpente e aveva una forza sovraumana… non voleva entrare in chiesa, non voleva guardare l’immagine di San Michele mentre il prete recitava la preghiera di liberazione… una vera guerra, ricordo la fatica per tenerla ferma, poi finalmente la pace. Il demonio, ogni tanto, viene a farmi visita di notte, come per ricordarmi che lui esiste e che si ricorda di me. Una notte ha cercato di strangolarmi... ma non ci è riuscito. Si vince sempre, se si ha fede.

La storia di Luigi fa riflettere su molte cose. Una su tutte: il male. Un male voluto, esercitato, un male che può nascere anche dall’invidia che intossica molti rapporti tra le persone. La pratica del male è esercitata con dei veri e propri rituali che sopravvivono ancora in quest’epoca moderna, più di quanti si sospetti. E dall’altra parte, contrapposto, il bene con le sue armi e i suoi eserciti fatti di religiosi e di persone come Luigi. Terminata l’intervista, mi accompagna alla macchina e indica il castello abbandonato che domina lo sfondo. Lui lo guarda assorto:

A che stai pensando, Luigi?

<C’è un’entità, là dentro... credo la vecchia proprietaria, che non riesce a staccarsi dal posto. Un giorno ero lì accanto e ho sentito chiaramente una sensazione di gelo e di qualcosa che mi schiacciava il torace, quasi impedendomi di respirare. Avere certe capacità significa anche questo.
E da giovane “vidi” in anticipo l’inaspettata morte di mio fratello. A volte il mio dono diventa un peso. Ma Dio mi aiuta a sopportarlo.>


Benedizione e maledizione. Bene e male. Una battaglia antica come il mondo. 


L’articolo di Simona Gonzi è stato pubblicato sul numero 17 di Giugno 2014 della rivista “Mistero”. Protetto da Copyright, viene pubblicato su questo sito per gentile concessione della redazione di “Mistero”, e degli amici Simona Gonzi e Ade Capone.

9 giugno 2014

Il misterioso Guardiano del Torrazzo di Cremona


di Michele Scolari




Secondo una leggenda medievale riportata da Jacopo D’Acqui ma risalente alla distruzione di Cremona da parte del re longobardo Agilulfo, un leone sarebbe seppellito sotto il campanile romanico del Duomo di Cremona.

Quanti sono i leoni posti a proteggere la cattedrale di Cremona? Se contassimo soltanto quelli stilofori, la risposta sarebbe sei: due a sostegno del protiro dell’ingresso principale, due al protiro del portale settentrionale del transetto (scolpiti dal ticinese Giambonino da Bissone forse assieme a Guglielmo da Campione) e due a quello del battistero. Ma se cominciassimo ad includere anche i quattro più piccoli che sorreggono le quattro colonnine della loggia sopra il protiro, il numero salirebbe a dieci. Ed aumenterebbe progressivamente a undici aggiungendo quello alato (simboleggiante San Marco) posto sul capitello destro del portale; a dodici, con quello scolpito sotto i cavalli di luglio (nei fregi dei mesi sopra l’arco gotico del protiro); e, infine, a tredici, con quello posto sul capitello vegetale ai piedi della facciata (volendo si potrebbe conteggiare anche quello non scultoreo ma dipinto, che troneggia nel circolo zodiacale dell’orologio astronomico di Giovanni e Francesco Divizioli). Eppure, alcuni sostengono che ve ne sarebbe ancora uno. Secondo un’antica leggenda, testimoniata nel XIV secolo ma risalente all’epoca dell’invasione longobarda, nelle fondamenta del Torrazzo giacerebbe sepolto il quattordicesimo leone. Quest’ultimo però non marmoreo: si tratterebbe di un esemplare in carne ed ossa.


La narrazione poetica della vicenda è contenuta in un passo della Cronica Imaginis Mundi, scritta tra il 1300 e il 1334 dal cronista Jacopo d’Acqui (segnalato dapprima dal professor Giuseppe Pontiroli e successivamente dall’architetto Maria Teresa Saracino, della Soprintendenza di Brescia, Cremona e Mantova). Era l’anno 603 e le armate del re longobardo Agilulfo, penetrate un trentennio prima in Pianura Padana dal Friuli sotto la guida di Alboino, giunsero alle porte di Cremona, la quale, rimasta fedele all’Impero Romano d’Oriente, rappresentava l’avamposto più settentrionale dell’Esarcato di Ravenna. A parte le motivazioni politiche (la fedeltà di Cremona a Roma), sembra che l’ira di Agilulfo verso la città fosse alimentata anche dal fatto che i bizantini avevano rapito sua figlia e suo genero, portandoli proprio a Cremona.

Per questo, racconta Jacopo, «nel mese di luglio Agilulfo pose un terribile assedio a Cremona e la prese alle XII calende di Settembre e la rase al suolo, con l’ordinanza che nessuno dovesse abitarci e chi avesse voluto comunque risiedervi sarebbe stato decapitato». I pochi cittadini superstiti ad un simile scempio vennero costretti ad abbandonare la città. Sicchè, prosegue Jacopo, «per lungo tempo Cremona rimase disabitata – gli abitanti avevano fondato borghi e villaggi nei boschi verso Lodi e sugli isolotti del Po, ndr - e divenne deserta – fonti locali dicono per quasi vent’anni, ndr . – Capitò dopo molto tempo dopo che un certo gran principe Gallico passasse di lì in buona comitiva e che si accampasse per caso nel luogo dove c’era stata Cremona. Ed ecco che un leone si avvicinò zoppicando e mostrò la zampa, lesa da una spina al principe, il quale, per nulla spaventato, curò la zampa del leone che subito sparì e, dopo un’ora, tornò con un capriolo in bocca deponendolo ai piedi del principe. Quando questi ripartì, il leone lo seguì domesticamente fino a Roma, dove il principe, stando col suo leone, apprese che il luogo in Lombardia dove aveva incontrato il Leone era la città di Cremona. Dopo che il principe fu ripartito da Roma, il leone che lo seguiva venne a mancare. Allora il principe portò con sé le sue ossa in Francia e, quando tornò in Lombardia, a Cremona, riedificò la città; e per prima cosa pose le ossa del leone nelle fondamenta del muro dove c’è il Torrazzo ("et in fundamento muri ubi est torratium ossa leonis primo posuit"). E questa è la causa per cui in cima al Torrazzo è posto un leone, e dev’essere con la zampa alzata, in ricordo del primo vero leone che sollevò verso il principe la zampa ferita dalla spina».

La leggenda di un principe gallico che seppellì sotto il torrazzo un leone curato da lui tra le rovine di Cremona riaffiora nel 1515. In un passo degli AnnalesDomenico Bordigallo (verosimilmente basandosi sul precedente passo di Jacopo o di qualche fonte perduta), decantando la bellezza e la maestosità del Torrazzo, riporta la stessa storia con qualche particolare in più sul leone bronzeo posizionato sulla guglia: «Al di sopra dei merli, un certo principe Gallo, per un suo voto in cammino alla volta della città di Roma, lo decorò (il Torrazzo,ndr) moltissimo con la torre e con la pigna e con la ghirlanda. E seppellì nel piede della Torre (“in pede turris sepelivit”) il leone suo familiare, venuto a morire. In memoria di questo, eresse sopra le mire anche un leone in bronzo, rivolto a Parma. Dal metallo di questo leone, dopo lunghi tempi, secondo le cronache fu fabbricato un gran tintinnambulo, ossia la campana grossa».

E, ancora nel 1588, Ludovico Cavitelli, in un passo dei suoi Annales (anch’egli riprendendo da Jacopo o da qualche fonte comune), parlando dei leoni stilofori dei due protiri, spiega che vennero scolpiti «per conservare la memoria del leone un tempo prostrato ai piedi dell’Eroe Gallico e delle sue ossa poi seppellite nelle fondamenta di questa Torre, quando fu riedificata la stessa città, dopo che fu distrutta da Agilulfo Longobardo, per opera dell’Eroe e per indicare che la città stessa è posta sotto l’astro del Leone». La narrazione sembra ripresa da Jacopo d’Acqui (o da qualche fonte comune). Anche in questo caso, come nella Cronica di Jacopo, l’eroe gallico non ha nome, ricostruì Cremona dopo la distruzione longobarda di Agilulfo e il leone è prostrato ai suoi piedi. Però non si dice il perché. «E ciò – ipotizza la Saracino – induce a pensare che ai tempi del Cavitelli la leggenda del leone fosse così ben conosciuta da non abbisognare di essere ripresa per intero».

Ora, in questa leggenda vi sono senz’altro alcuni elementi da rifiutare. A cominciare dall’attribuzione all’ignoto eroe gallico del merito della ricostruzione di Cremona dopo l’assedio longobardo di Agilulfo. Come riporta Pellegrino Merula ne Il santuario di Cremona (1627), l’impulso alla riedificazione e ripopolazione della città partì probabilmente dalla moglie di Agilulfo, la regina Teodolinda (in precedenza moglie del re longobardo Autari). Alla morte del marito, la regina ordinò la riedificazione di Cremona a partire dal quartiere San Michele (santo protettore dei Longobardi), con la edificazione della chiesa e di un fortilizio (verosimilmente sui resti di una fortificazione bizantina). Anche se il Merula non indica la fonte, gli storici sono piuttosto concordi nell’accogliere la notizia come veritiera. Altro particolare da respingere è il fatto che un principe Gallico abbia eretto la pigna e la Ghirlandina del Torrazzo, certamente posteriori al 1284. Ma da tale leggenda, secondo la Saracino, si potrebbe tuttavia ipotizzare una retrocessione della data d’inizio del cantiere della Torre (riconosciuta al 1284). Viene indicato come luogo di sepoltura del leone le fondamenta del Torrazzo. Quindi, ipotizza la Saracino, o quegli storici dovevano avere scarso senso critico, oppure per loro era scontato che le fondamenta della torre fossero antecedenti al 1284. Inoltre, la notizia della presenza di un leone bronzeo sulla guglia del Torrazzo in un periodo più o meno coevo a quando Jacopo scriveva, si trova nella Cremona Fedelissima di Antonio Campi (1585), dove, alle pagine 62 e 63 si legge: «1350 […] nel mese di maggio fu da cremonesi posto un leone di bronzo dorato nella cima del Torraccio». Si tratta di un leone diverso ed antecedente a quello di San Marco che i veneziani, impadronitisi di Cremona, fecero apporre sulla guglia nel 1506 (e distrutto da un fulmine nello stesso anno). 


Lo stemma della 
Casata di Svevia,
alla quale apparteneva 
Federico II Hohenstaufen
E tre anni dopo, nei già citati Annales (1588), Cavitelli riporta che i Guelfi cremonesi abbellirono la Cattedrale «rendendola più ornata, avendo fuso il leone di ottone posto su questa torre ed avendo di esso fatto una palla posta sopra il pinnacolo della stessa torre» (Bordigallo riportava invece che se ne ottenne non una palla ma la campana grossa del Torrazzo). Dunque, prima del leone veneziano del XVI secolo, in cima al Torrazzo c’era stato un altro leone che vi rimase sino al 1284, anno della fusione indicato da Cavitelli. Perché vi fosse un leone sul Torrazzo nel XIII secolo è cosa ardua da ipotizzare. Ma nel passo di Cavitelli c’è il riferimento alla Costellazione del Leone, sotto la quale era posta Cremona. Il Leone doveva dunque indicare il simbolo della ricostruzione della città dopo l’assedio longobardo? Ma in tal caso perché, chiede giustamente la Saracino, ricordare soltanto il nome del distruttore e non anche di colui che la ricostruì? A meno ovviamente di non voler considerare un’altra spiegazione (che lascerebbe da parte, almeno di primo acchito, la leggenda del principe e del leone): ossia l’ipotesi che il leone bronzeo posto sulla guglia del Torrazzo prima del 1284 avesse in qualche modo a che fare con l’Imperatore Federico II di Svevia, che effettivamente elesse Cremona capitale del Nord Italia “pro tempore” e propria corte dal 1220 al 1250, quando la nostra città era tra le più potenti della Pianura Padana e lo aveva accolto salvandogli la vita (leggi l’articolo). Lo stemma della Casata di Svevia era infatti “d’oro ai tre leoni neri passanti disposti in palo”, anche se il ramo di Sicilia adottò poi una versione modificata dell’aquila imperiale, sostituendo il campo d’oro con uno d’argento (d’argento all’aquila di nero imbeccata, lampassata e membrata di rosso). Ad una simile ipotesi ben si attaglierebbe anche la fusione del leone bronzeo sul Torrazzo da parte dei Guelfi cremonesi, verosimilmente per cancellare definitivamente i lasciti dei loro nemici Ghibellini, i quali, sotto la guida di Oberto Pallavicino, erano anche appoggiati dall’“eretico” e “filoislamico” Federico II.

Il leone posto sul capitello 
vegetale ai piedi 
della facciata della Cattedrale
Tornando alla leggenda, sappiamo che le notizie di Jacopo d’Acqui riguardo ai Longobardi sono ricche e sostanzialmente rispondenti alla realtà storica. Perciò, prosegue la Saracino, «potrebbe essere in qualche modo degno di fede l’episodio del leone, per il quale Jacopo potrebbe aver attinto da altre fonti attendibili, oltre a Paolo Diacono». Per concludere dunque, la leggenda dell’ignoto principe Gallico e del leone induce a due ipotesi: o è stata creata per spiegare la presenza del leone bronzeo (duecentesco secondo Cavitellie Bordigallo, trecentesco secondo Campi) sulla guglia del Torrazzo; oppure si è tramandata oralmente una vicenda che in qualche modo rispondeva a verità e che a noi è giunta sotto una forma di difficile interpretazione. Non è verificata comunque l’ipotesi che i leoni marmorei del Duomo fossero stati scolpiti in memoria del leone seppellito sotto la Torre. La data riconosciuta in cui vennero scolpiti è quella riportata dal Cavitelli (il 1283-84) ma gli studiosi sono concordi nell’attribuirne almeno due allo scultore ticinese Giambonino da Bissone, senza specificare se vennero scolpiti per supplire la fusione del leone posto sulla guglia e per ricordare il leone sepolto sotto il Torrazzo.

Uno dei due leoni stilofori 
che sorreggono il protiro 
della Cattedrale
In generale, l’iconografia leonina nell’arte è assai antica e vi si sommarono e si stratificarono significati diversi e contributi di culture tra loro differenti e lontane (tanto da non poter essere ridotto entro schemi interpretativi rigidi): dai leoni “solari” posti come custodi sulla soglia degli antichi templi egizi, sino ai leoni funerari dell’arte romana (sia custodi che divoratori di vita). E ancora nell’arte paleocristiana (e successivamente romanica) il leone (simbolo complesso di forza, coraggio e giustizia) è anche un “custode” con evidente funzione apotropaica ed assume un aspetto terribile per dissuadere le potenze del male e per esprimere il tremendum che è nel sacro. Con questo significato (e non come lasciti del dominio veneziano, come invece ancora raccontano certe guide turistiche disinformate) numerosi leoni marmorei troneggiano in molte basiliche, palazzi e chiese romaniche della Pianura Padana e dell’Italia meridionale, inclusa Cremona: dove al cospetto imponente della Cattedrale, con i suoi tredici leoni (o forse quattordici, con quello che forse ancora riposa sotto la torre) a guardia delle porte e del Torrazzo, il male era ammonito a non varcare la soglia di quel monumentale luogo sacro e del campanile che vi sta a sentinella. Quasi a dire, nel senso cristiano del motto, hic sunt leones.

L’ANFITEATRO DI CREMONA ROMANA

Un mosaico rappresentante
la scena di una “venatio”
Leggendo l’avvincente leggenda del principe e del leone a Cremona, non passa inosservata, destando qualche dubbio, la presenza di un simile animale a Cremona all’inizio dell’Alto Medioevo. Non è mancato chi ha sottolineato che i cremonesi dell’Alto Medioevo di leoni non dovevano averne mai visti (osservando come i leoni marmorei della Cattedrale somiglino nel corpo più al bove padano che al re della savana). Ma non si può escludere in assoluto la presenza di animali selvaggi ed esotici a Cremona (sia pure in modo non certo massiccio come nei colossali anfiteatri della capitale, primo fra tutti il Colosseo). A tal proposito non andrebbero trascurati almeno due circostanze. La prima è la notizia trasmessa da Publio Cornelio Tacito nelle Historiae, relativa alla presenza nella nostra città, in epoca romana, di un anfiteatro in legno fatto erigere da Cecina su ordine di Vitellio nel 69 d.C. dai legionari della XIII Legione Gemina. Secondariamente, altrettanto utile per la leggenda del leone e del principe, è altresì curioso notare come il simbolo della Legio Tertiadecima Geminafosse proprio il leone, sempre presente sui suoi vessilli sin dalla formazione del corpo, reclutato da Giulio Cesare nel 57 a.C. (in vista della campagna contro le popolazioni della Gallia Belgica). Riguardo la natura degli spettacoli tenuti nell’arena di Cremona, Tacito riporta solamente di munera, ossia combattimenti tra gladiatori e gladiatori, il primo dei quali allestito proprio nel 69 d.C. da Cecina per Vitellio.


Il simbolo leonino sul vessillo
della Legione XIII Gemina
Ma non si può escludere che in seguito nella colonia cremonese avesse preso piede anche la prassi delle venationes (gli spettacoli tra gladiatori e belve), con la conseguente necessità di tenere in città numerose fiere, tra cui leoni (i quali, come del resto anche le altre belve esotiche destinate alle arene, erano in molti casi addestrati da domatori di professione). Ora, ipotizzando che la leggenda del leone e del principe abbia un fondo di verità, sarebbe suggestivo collegare la presenza del leone tra le rovine di Cremona con l’anfiteatro romano della città e con l’eventuale presenza in esso della tradizione delle venationes. Dal racconto di Jacopo viene da pensare che il leone fosse addestrato, o comunque in qualche modo avvezzo alla vicinanza con l’uomo. E inoltre non sarebbe eventualmente stato il primo caso in cui, durante gli assalti e i saccheggi dei barbari alle città romane, le belve in cattività fossero fuoriuscite dalle gabbie nel trambusto generale, restando poi ad aggirarsi tra le rovine a distruzione ultimata. Ma purtroppo non vi sono elementi per ipotizzare la presenza di eventuali belve esotiche nell’anfiteatro di Cremona sino all’assedio longobardo (nel 603 d.C.), né se in tale occasione, nel terribile parapiglia della distruzione (descritto dallo storico friulano Paolo Diacono), gli animali avessero avuto la possibilità di fuggire dalle gabbie, restando poi a vagare tra le macerie. Così come poco si sa comunque sull’anfiteatro cremonese, eretto dai legionari della XIII Gemina in soli quaranta giorni (particolare che fa supporre appunto la sua natura lignea). Né è dato di sapere se questa struttura sopravvisse effettivamente sino al tempo dell’invasione longobarda o se invece cadde in disuso con l’avvento della diocesi cristiana tra IV e V secolo (perché teatri e anfiteatri erano particolarmente invisi alle autorità religiose del nuovo culto).



1 giugno 2014

Il mistero nella vita di Francesco Scaramuzza


di Silvia Ragazzini Martelli






Chi non conosce Francesco Scaramuzza? Dovrei affermare che tutti sanno chi sia. Invece, nonostante le sue spiccate doti pittoriche e la suacletticità, sino a quando l’illustre critico Vittorio Sgarbi, nel 2003, cercò di rivalutarlo al pari, o forse più ,del pittore francese Gustave Doré, maggiormente conosciuto e osannato, il nostro artista rimase, non dico sconosciuto, per carità, ma un po’ sottotono. Forse più un artista minore, legato all’ambiente in cui nacque e visse, nel 19° secolo e cioè Sissa, situata nella Bassa Padana, in provincia di Parma, nell’umida e nebbiosa terra , adagiata sulle sponde del Taro e del Po.

Dunque, perché non raccontarvi in breve la sua storia? Storia intinta, a tratti, nel mistero, in quanto lo stesso Scaramuzza era una persona particolare, originalissima e, sotto certi aspetti, misteriosa. Sotto altri aspetti più quotidiani, era un semplice cittadino sissese, che amava esprimersi anche in dialetto e che polemizzava spesso sulla sua povertà e sui sacrifici che dovette affrontare per tirare avanti la propria numerosa famiglia. Era un artista che, come Socrate, non disdegnava confondersi col popolo e con la povera gente dei campi o, addirittura, coi primi rivoluzionari dei moti risorgimentali. Frequentava ambienti di alto rango, ma viveva anche in mezzo ai più bassi ceti sociali. Nacque il 14 luglio 1803, un anno prima del Piccio, altro artista legato sotto certi aspetti alla nostra zona. Fu battezzato come Francesco, Antonio, Bonaventura, figlio di Nicolò e di Marianna Benedetta Frondoni. I genitori avrebbero desiderato che studiasse materie umanistiche, ma in lui prevalse l’indole pittorica. Si iscrisse alla Regia Accademia di Parma, sotto la guida dei maestri Antonio Pasini e Biagio Martini .Si segnalò subito come ottimo giovane artista. Si qualificò in numerosi concorsi e vinse un premio di perfezionamento a Roma, come allievo più meritevole. Dalla Capitale spedì a Parma bei dipinti, tra i quali Silvia e Aminta (ora alla Galleria Nazionale di Parma) e altri. Rientrò a Parma a ventisei anni e si distinse ancora ,eseguendo bei quadri e affreschi. Alcuni li troviamo nella chiesa della Beata Vergine del Quartiere e di San Rocco a Parma ,o nella Galleria Nazionale. Sarebbe lungo l’elenco. Amò tanto Napoleone, da dipingerlo e denominarlo San Napoleone. Lo fece per l’Oratorio di San Lorenzo. Un bozzetto si trova al Museo Lombardi. Altri suoi dipinti sono reperibili a Noceto, nella chiesa di San Michele a Parma e in altre numerose località. Nel 1836 si presentò con un’immagine del Conte Ugolino all’Esposizione di Milano. Fu questa la prima volta che si accese in lui la convinzione di poter illustrare la Divina Commedia di Dante. Fu altresì abile disegnatore, oltre che pittore, e, a Selvapiana di Reggio Emilia, è ricordato per aver affrescato la volta del piccolo tempio petrarchesco. L’opera che ci commuove di più, essendo la più bella e la più celebre, si trova ora nella Galleria Nazionale di Parma ed è il Baliatico, così come l’Assunta in cielo di Cortemaggiore che, dicono, abbia ispirato Giuseppe Verdi ,quando compose il celebre brano la Vergine degli Angeli. Ma altre numerose opere ce lo ricordano, come Rosa Mistica in San Leonardo di Parma o La discesa al Limbo, nel Castello di Moncalieri. Inoltre, famosi affreschi in vari palazzi della propria città (Palazzo Dalcò, Chiostro Benedettino, Sala del Medagliere del Museo Archeologico di Parma ) e altre opere a Monticelli d’Ongina… Disegni, affreschi, dipinti, bozzetti…Tanto e bene lavorò. Nel 1840, a 37 anni, iniziò a pensare seriamente di portare a termine un lavoro immane, cioè di illustrare tutte le cantiche dantesche della Divina Commedia. Opera summa, di grande impegno, che richiedeva enorme preparazione, grandissima passione e infinita pazienza. Purtroppo richiedeva anche un notevole e, per lui, inarrivabile supporto economico, che osò chiedere come sovvenzione al Barone Mistrali, allora Ministro, per poter affrescare i Corridoi universitari di Parma ,con soggetti danteschi. Il permesso non gli fu concesso e dovette accontentarsi della Sala della Biblioteca ,che istoriò in varie riprese. Dal 1831 fece parte anche dei moti risorgimentali e, nel 1859, durante la seconda Guerra d’Indipendenza, si recò sino in Piemonte ,da Camillo Benso Conte di Cavour, per portare l’adesione di Parma allo Stato Sardo. Ricordiamo che varie sue opere furono apprezzate anche dall’Arciduchessa Maria Luigia e alcune non restarono a Parma. Di tutta la sua produzione l’opera più famosa e impegnativa restò sempre l’illustrazione della Divina Commedia. Quasi cinquant’anni di lavoro, di studi, di soddisfazioni mai pienamente riconosciute e raggiunte. Solo il Professor Scarabelli, dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, ne fece uso per le proprie lezioni e osò paragonarne l’autore al grande e più noto Gustave Doré. Giunto dopo di lui nell’ideazione, ma prima di lui nella pubblicazione. L’uno portò a termine le illustrazioni a grafite, lo Scaramuzza, a penna. Il sissese portò sì a compimento ben duecentoquaranta cartoni, settanta sull’inferno, centoventi sul purgatorio e cinquanta sul Paradiso, con, in aggiunta, il suo famoso autoritratto, sempre eseguito a penna. Ma non arrivò ad illustrare tutte le cantiche, come si era proposto, per mancanza di aiuti economici e perché fu battuto sul tempo e con immediato successo dall’artista francese. La sua propensione al mistero, oltre che essere innata, prese vita da un suo personale e profondo dolore. Riuscì a vivere con la consorte solo brevissimo tempo e costei gli premorì molto presto, lasciandogli la responsabilità di allevare ben quattro figli. La lettura di Dante parve, almeno in parte, confortarlo di questa dolorosa perdita. Si sfogò col potere carismatico e liberatorio dell’arte, incidendo sui cartoni con puntini e linee e disegnando a penna, tanto che l’inchiostro, così ben distribuito, con luci e ombre, parve incisione. Grafiche, le sue , di altissimo livello. Nel 1870 una parte di queste opere fu esposta a Parma e il tutto fu definito un capolavoro. Specialmente Alberto Rondani lo apprezzò, per la tecnica sopraffina e per l’interpretazione. Perciò fu giudicato, anche se non molto noto, il più grande, il più filosofo tra gli illustratori del divino poema, già nel 1874, dalla stampa. Nel 1872 espose ,con meritato successo , quarantasette dei suoi cartoni, a Firenze, poi a Roma. Dopo la sua morte, furono esposti di nuovo a Firenze. Ne parlarono Ruggeri, così come Ugo Ojetti. Aristide Barilli lo definì pregevolissimo, come pittore. Ma quando se ne resero conto, per lui era già troppo tardi. Il suo stile pareva ormai far parte del passato. Erano stati eseguiti prima di quelli a matita del Doré, ma quest’ultimo, anche se con merito, gli rubò in anticipo ogni onore. E qui inizia un suo profondo cammino misterioso. Ormai vecchio, quasi un Socrate con la folta barba bianca e le lunghe vesti, si consolò, dialogando con gli spiriti. Amò lo spiritismo. Addirittura affermò di essere anche poeta, però “sotto dettatura dei grandi spiriti “come Metastasio, il Petrarca, l’Ariosto, il Tasso, il Goldoni, il Leopardi, Angelo Mazza, Ada Corbellini, il Pascoli, il Giusti, Eleonora Pimentel, l’Alfieri… Basti pensare che scrisse ben 26 canti di un poema sacro, con 2691 stanze, in ottave ariostesche o commedie in stile goldoniano. Senza contare che visse quasi in transfert con e per Dante Alighieri. Affermarono infatti che era nato per sentire Dante. Fu da lui suggestionato e ispirato a tal punto da firmarsi Medio Y e poi Medio Francesco Scaramuzza. Si mise a scrivere poesie e poemi ad età avanzata e sosteneva convinto che fossero i poeti trapassati a dettargli i versi. A quell’epoca lo spiritismo era visto come una “scienza” sconosciuta e adatta a “teste esaltate e visionari”. Per Francesco invece era quasi un dogma. Addirittura credeva alla reincarnazione delle anime e affermava che lui stesso vivesse nella quarta e che riusciva a risvegliare il canto di poeti scomparsi, che gli suggerivano in vari stili. Possedeva un’eccezionale sensibilità. rilevabile nelle Poesie Spiritiche, nel Poema Sacro, in Due Commedie, in Due Canti Sulle Corporali Esistenze Dello Spirito. Fu dunque un poeta per procura. Certo che distinguere un visionario da un genio non è per niente facile. Amareggiato e mortificato, non aiutato e non compreso sino in fondo, sentiva avvicinarsi la morte e la fine di un’esistenza, costellata di successi ,non però adeguati alla propria grandezza. L’immagine di Scaramuzza, esposta nella Sala Consiliare dell’ahimè chiusa-speriamo non per sempre-Rocca di Sissa-, ce lo mostra come un distinto e simpatico signore. Un onesto signore, un po’ filosofo, un po’ rivoluzionario, un po’ visionario, ma molto artista. Alcuni dicono che portasse lunghe vesti rosse e nere in inverno e che usasse parlare con le anime dei trapassati. Lo stretto rapporto col regno dell’aldilà, descritto da Dante, lo pose in transfert ,tramite l’opera letteraria e la fantasiosa interpretazione pittorica, col mondo soprannaturale. Pur essendo quasi ateo o comunque non particolarmente religioso, quasi panteista, credeva nel rapporto con gli spiriti dell’oltretomba, coi quali conversava come con le persone vive. “Siam molti i Spirti che del par ti amiamo/Ne vo’ che d’Essi un solo tu ne sfratti/Per satisfare a questo mio desire,/Ma vo’ che tu li possa tutti udire”. (2° stanza, dettatagli da Lodovico Ariosto, come preludio al Poema Sacro). Morì a Parma il 20 ottobre 1886, a 83 anni. Raggiunse la fama nel proprio paese e nella propria città, oltre che in alcune località più lontane, ma non ottenne mai la piena considerazione decretata al Doré. Ricordiamo, della sua famiglia, anche il fratello Salvatore, che fu un bravo incisore calligrafo e il nipote Camillo, (1833-1915), ugualmente pittore che, con fantasia, illustrò la Rocca di Sissa, nel dipinto situato nel Municipio di Zibello e intitolato Il circo a Sissa. Don Enrico Dall’Olio lo definì uomo “rarissimo” e “misterioso, quasi inesplorato”. Infatti fu non solo pittore, ma anche patriota, poeta e medium, per le numerose sedute spiritiche alle quali credette e che lo fecero entrare – come lui stesso diceva, in contatto con “gli spiriti magni”. Fu un uomo generoso, buono, umile, coraggioso, democratico, modesto, che lavorò sino a sedici ore al giorno, che voleva essere collocato dopo la propria morte, in terra, senza catafalco. Un uomo rimasto vedovo a soli trentasei anni, nel 1839, dopo aver sposato nel 1830 Virginia Magnaschi, che morì giovane, solo dopo nove anni, ma gli lasciò Elisa, Emilia, Adele ,che morì a sedici anni, e Silvio. Visse a Sissa, il paese che il fondatore della scuola Beato Angelico di Milano, l’Architetto Monsignor Polvara, definì con questa frase: quella è una terra buona per i pittori. Le pronipoti Elisa e Matilde Parizzi ereditarono i famosi cartoni danteschi, ancora di proprietà degli attuali eredi. Scaramuzza fu maestro d’Estetica, di Composizione e di Pittura alla Ducale Accademia di Belle Arti di Parma, ne divenne Direttore.Nel 1860 fece parte della Commissione artistica e fu nominato Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e Ufficiale socio della Regia Accademia. Seguono numerosi e altisonanti titoli per definirlo. Ma non bastarono a riconoscergli il proprio valore, anche dopo due importanti retrospettive tenute nella sua Sissa. Vittorio Sgarbi seppe capirne l’importanza notevole e lo liberò dall’indifferenza della Critica blasonata, riportandone alla luce il valore ed estraendolo dalla pastoia che lo riduceva al ruolo di sconosciuto e sottovalutato da sempre. Sarebbero tante le notizie da fornire riguardo questo eccelso artista che ,anche se figlio di un agente di dogana, seppe monopolizzare il mondo dell’arte per una propensione naturale, ma anche, come lui affermava, per volere dei misteriosi spiriti magni che gli fecero compagnia dall’alto , soprattutto in campo poetico, e che lo guidarono. Oggi Sissa Trecasali può onorarsi di un genio che nacque, visse e camminò nelle nostre strade. In località Sissa, ancora esiste la casa, non giustamente conservata per onorarne la memoria, una via, nella quale ho l’onore di vivere e una piazzetta. Le Scuole Medie di un tempo erano a lui dedicate e un medaglione celebrativo fu posto sul muro della sua casa, con la dicitura: 14 Luglio 1803- Qui nato Francesco Scaramuzza, Pittore insigne ,illustratore sovrano, per arte italica e spirito dantesco ,della Comedia Divina ,sei anni dopo la morte, non morituro, la Patria segna superba- 20 ottobre 1892.Ora riposa alla Villetta di Parma, ma forse avrebbe preferito la nuda terra di Sissa. Chissà che non sia lui adesso a ispirare gli artisti del luogo ,presentandosi loro(a volte anche a me, essendo poetessa e pittrice, suggestiona l’idea), come spirito Magno. 



“Per ora io prego meditar sul poco
Che qui v’ho posto innanzi con fatica
Così che già mi sento e stanco e roco;
Padroni tutti di non creder mica 
A questi Veri ch’io trovai sul loco,
Dove ancor mia mente si affatica
Per inoltrar nell’Infinito Mare, 
Nel quale non è lito ad approdare”.



(Tratto dal Poema Sacro - Francesco Scaramuzza).





Bibliografia: Francesco Scaramuzza-Gianni Capelli-Enrico Dall’Olio-Luigi Battei Parma.

Sissa-A. Bacchinii-Tipolitografia Benedettina-

Sissa e le due Delegazioni-Gianni Capelli – Editoria Tipolitotecnica-Sala Baganza Parma