28 febbraio 2014

Intervista ad Alessandro Appiani di Emilia Misteriosa

di Emilia Misteriosa


 
Daria del Gruppo di Ricerca P.A.R.I. (Progetto S.E.R.P.) ha intervistato Alessandro Appiani, Socio Fondatore di Emilia Misteriosa.
Nell'intervista trasmessa nel programma Paranormal Activity su OKRADIO si è parlato dell'indagine notturna svolta a Giugno dello scorso anno al CASTELLO DI TORRECHIARA.

Cliccate sul logo sottostante per ascoltare l'intervista.


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25 febbraio 2014

Intervista a Isabella Dalla Vecchia di LuoghiMisteriosi.it


di Paolo Panni




Emilia Misteriosa pubblica oggi questa intervista a Isabella Dalla Vecchia, autrice del libro “Oggetti Misteriosi, Inspiegabili e Magici in Italia”, edito da Eremon Edizioni e arricchito dalla prefazione di Sabrina Pieragostini. Isabella Dalla Vecchia, da tempo, pubblica inoltre i risultati delle sue ricerche, dei suoi viaggi e delle sue indagini lungo l’Italia sul suo portale www.luoghimisteriosi.it .




“Oggetti Misteriosi, Inspiegabili e Magici in Italia”: perché, Isabella, questo libro? Come ti è nata l’idea?
Avevo già sul mio sito www.luoghimisteriosi.it un pulsante che riportava ad una pagina dedicata agli “Oggetti misteriosi” e dato che solitamente mi baso su alcuni libri per arricchire gli articoli, non trovavo nulla di relativo a questa tematica in Italia. Ed allora ho pensato di farlo io. Esistono testi dedicati agli OOPARTS nel mondo, ma in tema Italia sembrava non essere stato ancora scritto nulla. “Forse perché non ce ne sono”, si sarà risposta la maggior parte delle persone. E invece no. Anche noi abbiamo molti oggetti misteriosi, non da meno rispetto ad altri. Il Disco di Festo viene studiato in tutto il mondo? E’ una probabile copia del Disco di Magliano conservato a Firenze. La ghigliottina? E’ un’idea di Guillotin dopo aver visto quella di Caravaggio. Le vicende di Re Artù? Sono state narrate per la prima volta in Italia. Il libro del Voynich, il testo più misterioso al mondo nonostante oggi si trovi in America, è stato scoperto nel Lazio. A volte cerchiamo i misteri dall’altra parte del mondo, senza accorgerci che siamo seduti sopra uno scrigno pieno di segreti. Ecco da dove nasce l’idea, dall’amore per il mio paese e dalla voglia di aprire questo scrigno.

Come presenteresti, in poche righe, questa tua produzione?
Questo libro raccoglie una serie di oggetti italiani del passato, di cui andarne fieri, non solo perchè unici al mondo, ma perché sono stati studiati, replicati e diffusi da parte di scienziati o artisti stranieri. Oggetti che conosciamo perché ci sono pervenuti dall’estero senza sapere che in realtà la loro origine è qui, proprio in Italia, perché siamo stati noi gli ideatori. Gli oggetti non sono cose senz’anima, essi sono la testimonianza del nostro passato, ogni nuova area archeologica viene descritta dai monili ritrovati, indispensabili per la ricostruzione del suo trascorso che sarebbe altrimenti perso per sempre. Essi sanno parlare con la loro usura, fattura, composizione e raccontano anche in modo dettagliato le abitudini, le manie, le credenze dei nostri antenati. Gli oggetti votivi ci raccontano quanto avveniva in un antico rituale, quelli guaritori, ancora imbevuti dell’energia delle persone bisognose, raccontano le malattie di un tempo, gli oggetti tecnologici, in grado di funzionare ancora oggi, invece descrivono le necessità della società, mentre quelli inspiegabili… beh di quelli non capendo la loro lingua, comprendiamo solo che nessuno è ancora in grado di darne spiegazione. Con questo libro io voglio far parlare gli oggetti, voglio dargli la loro vera voce.

Cosa ti ha dato l’esperienza che ha portato alla stesura di questo libro unico nel suo genere? E dove ti ha portata? Cos’hai appreso?
Mi sentivo come se questi oggetti li trovavo veramente. Una Indiana Jones virtuale, che scavava nella storia e nelle curiosità, e quando trovavo un oggetto che apparentemente “non conosceva nessuno” era come averlo effettivamente scoperto sotto una coltre di terra e pietra. Sentivo di dargli la luce e di appoggiarlo fisicamente dietro la vetrina del museo del mio libro. Quando mi reco a visitare un luogo, accade di scoprire quasi sempre che accanto ne esiste uno ancora più interessante. Constatai che non esisteva città, chiesa o castello senza una rarità, una personale leggenda, una curiosità e questo rendeva la ricerca sempre più intrigante. Roma, Napoli e Venezia sono le città più belle del mondo, ma esistono migliaia di altre piccole realtà altrettanto interessanti. Città che magari hanno costruito la loro identità attorno ad un oggetto sacro. Indiana Jones si basa sulla ricerca degli oggetti più potenti del mondo, l’arca dell’alleanza, il graal, i teschi di cristallo. Se pensiamo che noi di palpabili Graal ne abbiamo addirittura quattro, oltre al fatto che Longino e la sua lancia erano italiani… comprendiamo l’importanza della ricerca nella nostra terra. Ma c’è ancora molto da scoprire perché stanno affiorando nuovi oggetti di cui mi occuperò prossimamente, in quanto ho intenzione di continuare questa emozionante ricerca.

L’oggetto che, in assoluto, ti ha colpita di più? E quello che non avresti mai pensato di trovare? E quello che, chissà, pensavi di trovare e invece devi ancora scoprire?
L’oggetto che mi ha colpito di più è la Stele di Caven, principalmente perché sono stata coinvolta emotivamente da un evento accaduto da pochi mesi, la cometa Ison. Caven è una pietra dalla forma ovale che riporta una strana incisione dalle fattezze antropomorfe, anche se nessuno è stato ancora in grado di dare una spiegazione esaustiva. Secondo Adriano Gaspani la stele di Caven sarebbe il ritratto di una cometa realizzato dagli uomini che popolavano il nord Italia 5000 anni fa. Solo oggi, grazie ai moderni telescopi che hanno mostrato una Ison non convenzionale, abbiamo potuto effettuare un confronto ufficiale che mi ha lasciata davvero esterrefatta. Nel libro ho concluso il capitolo con “Lo capiremo solo quando, in futuro, una identica forma non si manifesti nuovamente” ed è proprio ciò che è accaduto.
L’oggetto che mi ha sorpreso invece è l’uovo dell’eclissi, deposto da una gallina in seguito ad un’eclissi di sole. Ho sempre sostenuto un’intelligenza emotiva degli animali e con quell’uovo ne ho avuto la conferma. Affermo con gratitudine che proprio quest’oggetto mi ha scatenato l’idea del libro sugli oggetti misteriosi. Non ho scoperto l’uovo di Colombo, ma mi è bastato uno di gallina…
Non riesco a descrivere un oggetto ancora da scoprire, in quanto ogni novità porta anche l’elemento della sorpresa. Una cosa è certa: qualsiasi sia il contenuto di uno scrigno, esso presenterà l’ultima delle tue aspettative.

Emilia Misteriosa è una associazione che, come evidenzia chiaramente il nome, si concentra sui misteri emiliani e, quindi, passiamo ora a questa nostra regione. Quali sono gli oggetti misteriosi, inspiegabili e magici dell’Emilia a cui dai spazio nel tuo libro? Ce li illustri?
Primo tra tutti, quello che tempo fa mi hai indicato tu, il Graal di Berceto. Sono poi andata a vederlo personalmente, è un calice davvero incredibile, sembra che emani luce in maniera autonoma. Per non parlare di tutte le simbologie del portale che riportano a pensare realmente che l’ipotesi della dott.ssa Daniela Agnetti riconduca correttamente al probabile Graal. Il disco di Forlì è poco conosciuto al punto che non esistono immagini, ma io sono riuscita ad ottenere una foto assolutamente inedita che si trova all’interno del libro. Poi ci sono i più conosciuti fegato di Piacenza e collare di San Vinicio, mentre uno dei miei oggetti preferiti è l’orologio di Zamboni un autentico meccanismo che sembra funzionare realmente a moto perpetuo…

Parlando di “misteri” nel senso più generale del termine, quali ti hanno più colpita, dell’Emilia Romagna e perché?
Mi ha colpita l’orologio di Zamboni, perché il moto perpetuo è qualcosa che mi ha sempre affascinata fin da piccola, fin da quando, cercando di risolvere l’enigma, osservavo a lungo le complicate e allo stesso tempo apparentemente semplici immagini di Hesher. Poi sono stata rapita dalla storia di Orfyreuss e dalla sua macchina a moto perpetuo il cui segreto non lo avrebbe mai svelato. Altri scienziati ci hanno provato, senza mai riuscirvi. Certo oggi abbiamo l’energia nucleare, apparentemente infinita ma pericolosa e di certo non pulita. Giuseppe Zamboni ebbe l’idea geniale di utilizzare l’unica forma di energia infinita e gratuita sul nostro pianeta, l’energia più misteriosa… il magnetismo… Il Graal di Berceto è in grado di ipnotizzare con la sua luce e il suo splendore… di lasciarti ad occhi aperti, gli stessi occhi sbarrati del Cristo sulla lunetta del portale d’entrata, immagine assolutamente non casuale.

La nostra associazione si dedica, in particolare, a studi, ricerche e indagini nel campo del paranormale. Quali le tue opinioni e le tue teorie su questa ampia tematica?
Ho sempre creduto nel paranormale in quanto mi sono accaduti eventi non spiegabili nella mia vita in relazione alle quali sto cercando di approfondire le eventuali motivazioni. Non sono una ghost hunter, non cerco i fantasmi, cerco le energie dei luoghi. Sono una persona scettica e quando qualcosa mi accade dev’essere molto forte e soprattutto reale. Molti oggetti del libro sono catalogati come “magici”. Parlo di pietra guaritrice di Isana, di collare di San Vinicio, di pietra della Sibilla, di corona ferrea, di bronzetto Shardana. Quasi tutti gli oggetti descritti nel libro hanno un lato oscuro non ben definito. Una loro energia percepibile, mantenuta nei secoli, perché sono eterni e custodi di autentici segreti.

Vuoi svelarci qualcosa dei tuoi progetti futuri?
Non riesco a pianificare progetti futuri in quanto, quando mi viene in mente qualcosa, tendo a farlo subito. Sicuramente approfondirò gli oggetti con un nuovo capitolo, se l’argomento interesserà, e proporrò qualcos’altro di inedito, ma se lo svelo adesso perderei in “sorpresa”. Una cosa è certa, parlerò sempre e solo di Italia, perché mi ispira, mi invoglia, mi diverte. Perché la amo.

 Un sogno che vorresti realizzare?
Trovare il Graal è certamente troppo banale, in quanto è un sogno molto, forse troppo ricorrente. Ma è proprio quello. Trovare il Graal non come calice, anche se fin’ora abbiamo parlato di oggetti  e nel libro ho perfino parlato di 4 palpabili Sacri Calici. Ma laddove ho parlato di oggetto, ho parlato anche si simbologia. Il Graal infatti è un simbolo un oggetto spirituale che contiene l’immortalità dell’anima. Il Graal è il nostro corpo come contenitore dell’anima, motivo per cui non dobbiamo andare tanto lontano. Ma è difficile penetrare all’interno di una fortezza creata da noi stessi.  

Grazie Isabella per la tua disponibilità e la tua collaborazione. E auguri, naturalmente, per tutte le tue attività.




BIOGRAFIA

Isabella Dalla Vecchia nasce nel 1973 a Milano. Diplomata all’Istituto d’Arte Beato Angelico di Milano nel 1992 ad indirizzo “architettura”. Fin dal liceo fortemente attratta dalla storia antica, dalla storia dell’arte e dalla letteratura, dalla Bibbia e dalla matematica. Fin da piccola ha avuto un forte interesse per l’Egitto, il medioevo e l’aldilà descritto da Dante. Con il marito Sergio Succu fonda “Luoghi Misteriosi” con il sito www.luoghimisteriosi.it che gestisce a livello di grafica, foto, video, contenuti, ricerche. Lo scopo del sito è la ricerca degli archeo misteri e la possibilità di renderla fruibile, la catalogazione di tutti i luoghi sconosciuti italiani affinchè gioielli fin’ora sconosciuti possano divenire di interesse pubblico. Nel 2012 il Centro Regionale Beni Culturali Regione Abruzzo, apprezzando il lavoro editoriale e di divulgazione del portale ha conferito a “Luoghi Misteriosi” l'utilizzo del logo di Certificazione quale "Attestato di Qualità" da parte del Patrimonio Culturale - Regione Abruzzo. Il sito ha ottenuto un grande successo e il lavoro di ricerca di Isabella è stato pubblicato su numerose testate: Il Giornale, Il Giorno, Cronaca Vera, Corriere.it, Libero Quotidiano.it, Libero Viaggi, msn.it, Turismo.it, La Stampa, Affari Italiani, Style.it, Focus.it, Metro.it, Panorama.it, il sito del Touring Club, Pets and The City, Quattrozampe, Virgilio, Corriere Nazionale, Il Centro, La Nazione, Il Tirreno, Giornale dell’Umbria, La Provincia, Corriere di Siena, La Gazzetta di Parma, La Cronaca di Cremona, Brescia Oggi, L’Eco di Bergamo, Giornale di Bergamo, L’Eco della Riviera,  Ticino Live, Telepass e in TV locali: TG Parma, Abruzzo 24h TV – Rassegna stampa approfondita su http://www.luoghimisteriosi.it/ufficiostampa.html
Collabora dal 2010 con la rivista di archeo misteri nazionale Hera e dal 2011 con Fenix in cui è presente una rubrica mensile. Sempre per la rivista ha redatto articoli importanti più approfonditi.
Collabora con la trasmissione Mistero di Italia 1 e con la testata ufficiale Mistero magazine.
Collabora con la trasmissione Bau Boys di Italia 1 pubblicando come esperta di settore, articoli che uniscono il mondo degli animali a quello degli archeo misteri e ha una personale rubrica all’interno di Radiobau, la web radio ufficiale di Radio Montecarlo.
E’ stata intervistata in trasmissioni come SI Viaggiare rubrica del TG2 - RAI 2 e video e ricerche sono apparsi su Studio Aperto e TG Regione. E’ stata intervistata alla trasmissione L’Altrolato RAI RADIO 2, a Dee Notte di Radio Deejay e 00kiss su Radio Kiss Kiss.




AI NOSTRI LETTORI RICORDIAMO CHE IL LIBRO “OGGETTI MISTERIOSI, INSPIEGABILI E MAGICI IN ITALIA”, ALLA PRESENZA DELL’AUTRICE, SARA’ PRESENTATO DOMENICA 9 MARZO, ALLE ORE 17, ALLA LOCANDA LEON D’ORO DI ZIBELLO NELL'AMBITO DELLA RASSEGNA “UN LIBRO CON TE’ ALLE CINQUE”. 

21 febbraio 2014

ALLA SCOPERTA DELL’ORFANOTROFIO FEMMINILE E DELLA CHIESA DEL CARMINE DI SORAGNA


di Paolo Panni


Nessun mistero particolare, questa volta, in quello che andiamo a presentare ai nostri lettori. 
Premessa d’obbligo per tutti quanti si accingono a leggere le prossime righe.
E’ bene ricordare che uno degli scopi di Emilia Misteriosa non è solo quello di far conoscere, approfondire e studiare i misteri delle terre emiliane, ma è anche quello di presentare luoghi meno conosciuti, normalmente non accessibili al pubblico. Divenuti, per questo, in qualche modo “misteriosi”.
Oggi è il turno dell’Orfanatrofio femminile  e della chiesa della Beata Vergine del Carmine, detta anche di San Rocco, di Soragna. Luoghi che Emilia Misteriosa ha potuto conoscere, e fotografare, grazie alla disponibilità e alla cortesia del sindaco Salvatore Iaconi Farina.






Partendo dall’Orfanotrofio, questo fu originato dalla beneficenza del marchese Diofebo Meli Lupi con suo atto del 1677. Ebbe sede originaria presso l'oratorio di Santa Croce per ospitare 6 ragazze orfane e povere. Si trasferì quindi, nel 1780, nell'ex convento dei Carmelitani. Il principe Casimiro ne migliorò la sede e così come migliorò le condizioni di vita delle povere orfane. Fu gestito dalle suore Figlie della Croce dal 1862, ed all’inizio del ’900 la direzione passò alle religiose della congregazione Piccole Figlie di Parma che vi rimasero fino al 1960 quando l'orfanotrofio cessò di operare.
Dal 1961 fu sede dell'asilo infantile <Vittorio Emanuele II> ed ospitò pure, per alcuni anni, due sezioni della scuola media.






Oggi l’edificio presenta ancora le caratteristiche classiche di un complesso conventuale, ma è completamente spoglio. Di proprietà dell’amministrazione comunale di Soragna è in attesa di essere riconvertito ad altri scopi.
E’ importante parlare anche del complesso conventuale originario. Sorse insieme all’adiacente chiesa della Beata Vergine del Carmine; fu modificato più volte ed ampliato per creare un comodo soggiorno per i frati.  Venne soppresso nel 1780 ed i suoi beni passarono al Conservatorio delle orfane.







Della chiesa della Beata Vergine del Carmine, detta di San Rocco, siamo invece in grado, come tutti potete osservare, di mostrare le immagini mentre i lavori, voluti dall’Ente proprietario, sono ancora in corso. Una volta ultimati, la chiesa sarà di nuovo fruibile al pubblico. Da evidenziare che I Padri Carmelitani fecero ingresso nel convento fondato dal marchese Diofebo Meli Lupi nel 1640 e, nel 1661 venne edificata l'attuale chiesa. Negli anni successivi il sacro edificio si arricchì di opere d'arte, tra cui il maestoso altare barocco in marmi e statue policromi fatto costruire a Venezia all'inizio del 1700 dallo scultore Alvise Da Cà. I marmi, tra l’altro, giunsero a Soragna attraverso il Po.
In sintesi queste sono le principali “tappe” degli immobili conventuali. Niente fantasmi e niente fenomeni misteriosi, quindi. Restano tuttavia affascinanti, ma non accessibili, i sotterranei della chiesa che conservano ancora ossa di confratelli e consorelle ivi sepolti in distinti sepolcri dinnanzi alla balaustra dell'altare maggiore.


SI RINGRAZIA IL SI SINDACO SALVATORE IACONI FARINA PER LA CORTESIA E LA DISPONIBILITA’.
E SI RINGRAZIA ALTRESI’ LO STORICO E GIORNALISTA LOCALE BRUNO COLOMBI PER LA PREZIOSA COLLABORAZIONE


LE IMMAGINI SONO DI PROPRIETA’ DELL’AUTORE E DELL’ASSOCIAZIONE EMILIA MISTERIOSA. PER UN LORO UTILIZZO E’ NECESSARIO CONTATTARCI. 

20 febbraio 2014

BUSSETO – I MISTERI DEL CRISTO MORTO NELLA CHIESA DI S.MARIA ANNUNZIATA


di Paolo Panni







Storia  e leggenda, mistero e fede si fondono, in un affascinante mix, fra le antiche mura della chiesa bussetana di Santa Maria Annunziata. Complesso religioso, questo, edificato nel 1472 per disposizione dei fratelli Gin Lodovico e Pallavicino Pallavicino, unitamente ad un ospedale di cui per due secoli fece parte. Ospedale di cui, oggi, non resta di fatto alcuna traccia.
Fra alterne vicende fu completata nel 1518 e, in quel medesimo anno vi fu istituita una confraternita detta di S.Maria o dei Battuti o Disciplinati – più tardi “del Confalone” – pio sodalizio eretto da papa Leone X con breve 11 aprile 1518 e dotato da Sisto V nel 1596 e da Paolo V nel 1607, di indulgenze. Oltre alla divulgazione del culto mariano, la confraternita aveva il compito di amministrare i beni dell’ospedale, prendendosi cura del miglior funzionamento dell’Ente, di distribuire elemosine e di sostenere economicamente nubende povere.
La chiesa, nel XVII secolo smise di far parte dell’ospedale, che fu trasferito nella nuova sede, nel centro cittadino. Fu quindi ampliata nel 1595 per iniziativa e a spese del giureconsulto Pietro Pettorelli e ricostruita ex novo nel 1804 dalla confraternita che l’aveva in uso, su progetto del bussetano Giuseppe Cavalli che si occupò anche delle decorazioni a stucco.




Al suo interno conserva diverse opere d’arte, su tutte la pala dell’altare maggiore, l’ “Annunciazione” di Vincenzo Campi. In questo dipinto tutta la scena si svolge all’aperto, presso una colonna in parte coperta da una tenda accanto alla quale si trova l’inginocchiatoio di Maria, su cui sono posati un libro e un vaso di fiori. La Vergine panneggiata in veste rosa e manto bianco, riceve l’annuncio da un angelo, che le sta di fronte genuflesso con un giglio in mano e l’indice teso verso l’alto. Inoltre, sul capo della Vergine stessa aleggia la Colomba, simbolo di pace, mentre più sopra appare l’Eterno benedicente tra una gloria di cherubini. Le figure compaiono immerse in una calma sovrumana in cui è tutta l’augusta solennità dell’avvenimento. L’opera reca sul fondo il nome dell’autore, Vincenzo Campi appunto, e la data 1581.
Nella chiesa, luogo in cui, il 31 gennaio 1805, si unirono in matrimonio Carlo Verdi e Luigia Uttini, i genitori del sommo musicista e compositore Giuseppe Verdi, si trovano anche opere pittoriche del bussetano Pietro Balestra. Una rappresenta l’Apparizione di Cristo alla Maddalena, che giace genuflessa ai piedi di Gesù, il quale, presso il sepolcro scoperchiato e vuoto custodito da angeli, appare nelle vesti del giardiniere, con la vanga tra le mani e il capo aureolato e circondato di cherubi. Un’altra raffigura invece le Marie al sepolcro: sono in tutto quattro e incedono da sinistra verso il sepolcro, un sarcofago scoperchiato e vuoto posto all’ingresso di una grotta, cui fa da custode un angelo. Lo sfondo è di paesaggio; adagiata a terra, immersa in meditazione, giace la Maddalena.




Ma ad impressionare è, soprattutto, ai piedi dell’altare maggiore, il simulacro del Cristo Morto. In tutto e per tutto simile a una figura umana, anche al tatto, visto che il materiale con cui è realizzato, il cuoio, che al tatto, sulle prime, può appunto far pensare ad un essere umano autentico. Quello che lo riguarda potrebbe essere definito un giallo storico. Una vicenda in cui, più che mai, storia e leggenda si fondono. Si dice che a farlo arrivare sulla sponda emiliana fu, nel XV secolo, una piena del Po. Il fiume impetuoso, stando sempre alle narrazioni che da tempo vengono tenute vive dalla memoria popolare, distrusse una chiesa cremonese, portandosi via, quindi, anche questa statua del Cristo Morto. 





La “corsa” sulle acque finì a Vidalenzo di Polesine, sulle rive del fiume naturalmente. Immediatamente la gente locale lo scambiò per un cadavere autentico. Una volta avvicinato ecco che la verità si materializzò: quello che era davanti a tutti era un simulacro, integro, del Salvatore rappresentato dopo la crocifissione. Subito divampò una diatriba, tra le opposte rive del Po, circa il luogo in cui il misterioso Cristo doveva essere portato. A dirimerla, stando sempre ai racconti che si tramandano, sarebbe stato un frate che consigliò di adagiare la statua su un carro trainato dai buoi. Dove questi si sarebbero fermati si sarebbe quindi dovuto costruire un luogo di culto. Se ciò fosse vero significherebbe, quindi, che i buoi, dopo aver compiuto una manciata di chilometri,si fermarono a Busseto, dove ora sorge la chiesa di Santa Maria Annunziata.




Impressionanti sono anche i capelli e la barba del Cristo. Si tratta infatti di autentica capigliatura umana: quella che una donna donò, per grazia ricevuta, al Cristo stesso.




La statua, alla quale i fedeli di Busseto sono estremamente legati e devoti, viene portata in processione, ogni anno, la sera del Venerdì Santo ed è anche al centro di un’altra storia ricca di fascino e mistero. Si dice infatti che, ormai molti anni fa, proprio dopo una processione del Venerdì Santo, fu lasciata in chiesa collegiata, la principale chiesa cittadina, senza essere riportata nella sua collocazione originaria. Il mattino seguente, l’incredibile sorpresa: il Cristo, infatti, non si trovava più in collegiata. Subito si pensò ad un furto e invece, poco dopo, fu ritrovato, di nuovo in Santa Maria Annunziata. Come ci arrivò se entrambe le chiese (collegiata e S.Maria) erano chiuse e non presentavano alcun segno di effrazione? In tanti, da allora, ritengono che, prodigiosamente si sia spostato, nel bel mezzo della notte, da una chiesa all’altra e che quindi voglia rimanere nell’edificio in cui da secoli è posto.
Da evidenziare che, per la storica processione del Venerdì Santo, il maestro Giuseppe Verdi compose quattro “Notturni”: andati tutti persi. Dove si trovano? Sono andati persi per sempre o si trovano ancora celati in qualche “angolo” di Busseto e dintorni? Interrogativi che aumentano i misteri che accompagnano la storia di questo luogo.




Nello stesso edificio colpisce inoltre un altro particolare, vale a dire la presenza, in una delle cappelle laterali, di un reliquiario al cui interno si trova un teschio. E’ quello di Papa Clemente I: il quarto sommo pontefice della Chiesa cattolica (dopo Pietro, Lino e Anacleto), il primo di cui si hanno notizie certe e anche il primo dei Padri Apostolici. Fu Pontefice dall’88 al 97 ed è venerato, sia dalla chiesa cattolica che da quella ortodossa, come santo. Delle sue opere si conoscono uno scritto autentico, la Lettera alla Chiesa di Corinto e parecchi scritti, di dubbia attribuzione. La lettera da lui indirizzata ai Corinzi per ristabilire la concordia degli animi è considerata come uno dei più antichi documenti dell'esercizio del primato. Lo scritto testimonia il Canone dei libri ispirati e dà preziose notizie sulla liturgia e sulla gerarchia ecclesiastica. Accenna anche alla gloriosa morte degli apostoli Pietro e Paolo e dei protomartiri romani nella persecuzione di Nerone.
E’ patrono della città di Velletri e compatrono della diocesi di Velletri-Segni, insieme a San Bruno Vescovo.




Secondo Tertulliano, che scriveva intorno al 199, la Chiesa romana sosteneva che Clemente fosse stato ordinato da San Pietro (De Praescriptione, XXXII), mentre San Girolamo affermava che alla sua epoca la maggior parte dei latini era certa che questo Papa fosse l’immediato successore dell’Apostolo Pietro (De viris illustri bus, XV). Lo stesso San Girolamo sostenne questa tesi anche in molte altre opere e gli antichi documenti mostrano comunque profonda incertezza nella sua collocazione temporale.    Della vita e morte di Clemente non si conosce nulla. Gli Atti, apocrifi in lingua greca, del suo martirio furono stampati nel Patres Apostolici del 1724, basato sugli studi di Jean Baptiste Cotelier. Questi, ricchi di narrazioni ampiamente leggendarie, riferiscono di come convertì Teodora, moglie di Sisinnio, un cortigiano di Nerva e (dopo alcuni presunti "miracoli") Sisinnio stesso e altre 423 persone di un certo rango. Traiano bandì il papa in Crimea dove, secondo la leggenda miracolistica, avrebbe dissetato 2000 persone. Molte persone di quel paese si convertirono ed edificarono 75 chiese. Traiano, per tutta risposta, ordinò che Clemente fosse gettato in mare con un'ancora di ferro al collo. Dopo questi avvenimenti, ogni anno, il mare recedeva di due miglia, fino a rivelare un sacrario costruito "miracolosamente" che conteneva le ossa del martire e permetteva ai fedeli di recarvisi. Questa leggenda non è antecedente al IV secolo ed era sicuramente conosciuta da Gregorio di Tours nel VI. Intorno all'868 san Cirillo, che si trovava in Crimea per evangelizzare i popoli slavi, rinvenne in un tumulo (non in una tomba subacquea) delle ossa ed un'ancora. Immediatamente si credette che queste fossero le reliquie di Clemente. Trasportate a Roma da Cirillo, furono deposte da papa Adriano II, insieme a quelle di Ignazio di Antiochia, sotto l'altare maggiore della basilica inferiore di San Clemente. La storia di questa traslazione è piuttosto verosimile, ma non sembrano esserci tradizioni riguardo al tumulo, che fu trovato semplicemente perché poteva essere un probabile luogo di sepoltura. L'ancora sembra essere l'unica prova della sua identità, ma non si è in grado di stabilire se veramente era insieme a quelle ossa. Clemente venne menzionato per la prima volta come martire da Tirannio Rufino (circa 400). Papa Zosimo, in una lettera del 417 ai vescovi africani, riferiva del processo e della parziale assoluzione dell'eretico Celestio svoltisi nella basilica di San Clemente; il papa scelse questa chiesa perché Clemente aveva appreso la fede da Pietro in persona, ed aveva dato la vita per lui. Venne annoverato tra i martiri anche dallo scrittore noto comePraedestinatus (circa 430) e dal Sinodo di Vaison del 442. Critici moderni ritengono possibile che il suo martirio fosse stato suggerito da una confusione con il suo omonimo, il console martirizzato. Comunque, non essendoci tradizioni di una sua sepoltura a Roma, si suppone che sia morto in esilio per cause naturali.
Ignote le cause per cui il teschio di Papa Clemente I si trova a Busseto. Tuttavia è noto che, in passato, vi fu una vera e propria “compravendita” di reliquie fra chiese, conventi e confraternite. Il che lascia supporre che, nell’ambito di quel movimento di oggetti sacri e resti di santi, quella reliquia finì nella terra di Verdi dove è tuttora gelosamente conservata.

FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFICHE

M.Porcari, “Storie di una terra antica – Leggende e curiosità del Parmense”.
D.Soresina, “Enciclopedia Diocesana Fidentina”, Vol.III, “Le parrocchia, i parroci, le chiese”, Arte Grafica Fidenza, 1979.
it.wikipedia.org

SI PREGA DI SEGNALARE EVENTUALI COPYRIGHT NEI TESTI, AL FINE DI UNA LORO CANCELLAZIONE O MODIFICA.
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SI RINGRAZIA INFINE IL SIG. IVANO BONINI PER LA FONDAMENTALE, SQUISITA COLLABORAZIONE

19 febbraio 2014

“UN LIBRO CON TE’ ALLE CINQUE”: A ZIBELLO TRE APPUNTAMENTI COL MONDO DEL MISTERO



di Paolo Panni


A Zibello, caratteristico borgo rivierasco parmense, la stagione invernale si avvia verso la conclusione con la presentazione di tre libri, in altrettante domeniche, dedicati all’affascinante e magico mondo del mistero.
Già da qualche anno si tiene, in paese, durante tutto l’arco della stagione invernale la rassegna letteraria “Un libro con tè alle cinque”, che ogni domenica, alle 17, di fronte al focolare acceso della locanda Leon d’Oro porta libri e scrittori, offrendo al pubblico qualche ora di cultura e di conoscenza degli autori e dei loro sforzi letterari. Con l’obiettivo anche di sostenere l’attività della biblioteca locale che, in questo modo, ha già messo insieme qualcosa come duemila libri. L’idea è di Rosalba Scaglioni, ristoratrice (titolare del Leon d’Oro) con la passione per la scrittura, autrice già di alcuni volumi, profondamente innamorata della sua terra.
Entrando nel vivo dei prossimi appuntamenti, come evidenziato è tutto pronto in vista della presentazione di tre volumi di grande interesse per chi ama il mondo del mistero. Tre appuntamenti che l’associazione Emilia Misteriosa sostiene sia a livello organizzativo che di divulgazione. 

    


Si parte domenica, 23 febbraio, con la presentazione di “Ti segno e ti incanto” di Mario Ferraguti, con le illustrazioni di Giacomo Agnetti. Edito da Fedelo’s, si tratta di Un viaggio misterioso e mistico, alla riscoperta di un mondo in via di estinzione. La ricerca più approfondita e autorevole sull'universo delle streghe e delle guaritrici nella tradizione secolare dell'Appennino Emiliano, frutto di un lavoro di anni che mira a preservare la ritualità ancestrale radicata nel profondo di ognuno di noi. L’opera, in particolare, è dedicata ad alcune figure femminili così caratteristiche nel mondo di una volta e forse anche di oggi: le guaritrici e le segnatrici nella tradizione dell’Appennino. Quelle donne che, con preghiere e formule quasi magiche, erbe e unguenti, erano in grado di curare alcuni mali. Il libro nasce da una importante ricerca effettuata dall’autore; Mario Ferraguti, attraverso la tradizione orale e scritta di un universo popolato dalle guaritrici nell’Appennino tra Toscana, Liguria ed Emilia Romagna. Un libro affascinante e interessante, sia per la ricca ricerca antropologica con il recupero di tradizioni e culture, sia come strumento di approfondimento e conoscenza.




La domenica successiva, 2 marzo, sarà a Zibello Ade Capone, autore del programma fenomeno di Italia1 “Mistero”, col suo ultimo libro “Indagine sull’aldilà. Vita oltre la vita”, edito da Priuli & Verlucca. Una ricerca tra scienza e paranormale per fare luce su un mistero che appassiona gli uomini dalla notte dei tempi. Un'inchiesta realizzata con interviste a ricercatori e sensitivi. 
Esiste l’Aldilà? Se sì, quale aspetto ha? E cos’è, esattamente: il luogo che ospita le anime dei defunti o un nuovo livello di esistenza? Domande che l’uomo si pone da sempre, dando le più svariate risposte, dalle più scettiche alle più convinte. Ade Capone, autore appunto di Mistero, grazie alla sua esperienza sul campo accompagna il lettore in una vera e propria indagine tra scienza a paranormale, con un libro che è come un reportage di grande chiarezza e profondità.
Capone prende in esame le varie ipotesi, intervista ricercatori e sensitivi, parla di casi sconcertanti ampiamente documentati e prende in esame anche le più recenti teorie scientifiche. Quel che ne emerge è un quadro affascinante, un libro che appassiona e si legge tutto d’un fiato.
Ade Capone - scrittore, giornalista, sceneggiatore - è autore non solo del programma Tv Mistero, ma anche di altri numerosi programmi per le reti Mediaset (tra tutti, Il Bivio e Invincibili). A varie trasmissioni televisive ha partecipato anche in veste di ospite. Da sempre appassionato di argomenti misteriosi, ha compiuto numerosi viaggi (Europa, America, India, Bali, Medio Oriente) per documentarsi su luoghi e culture. Ha assistito di persona a molte delle cose che nei suoi libri racconta con una scrittura chiara e di grande impatto, fruibile da qualunque lettore. I suoi saggi sono delle vere e proprie inchieste che appassionano e fanno riflettere. Nella sua attività di sceneggiatore, inoltre, Ade Capone è considerato uno dei più importanti autori italiani, vincitore di numerosi premi per la sua scrittura, che anche nelle fiction elabora comunque elementi reali. E’ caporedattore della rivista Mistero, versione cartacea del programma omonimo.




Infine, domenica 9 marzo, sarà a Zibello Isabella Dalla Vecchia, del portale luoghimisteriosi.it, col suo libro  “Oggetti misteriosi, inspiegabili e magici in Italia” (Eremon Edizioni con prefazione di Sabrina Pieragostini, giornalista affermata di Studio Aperto, il TG di Italia 1 e della rubrica Extremamente), volume che è frutto di una costante e continua ricerca nel nostro Paese e  affronta un argomento inedito, ricco di disegni e fotografie, studi sul posto, risultato di una concreta ricerca. Dall’orologio a moto perpetuo di Zamboni alla stele che riporterebbe l’immagine di una cometa, dall’uovo dell’eclissi ai Graal italiani. “Oggetti, cose senza anima” ma è davvero così? Non proprio. Perché quando essi parlano sanno raccontare storie incredibili, vicende della nostra storia che avremmo altrimenti dimenticato.  Questo libro raccoglie una serie di antichi oggetti rintracciabili in ogni angolo della penisola italiana, vanto della nostra cultura, replicati e diffusi da scienziati e artisti di tutto il mondo. Nella corso della presentazione saranno illustrati e raccontati alcuni tra gli oggetti italiani più sorprendenti, in grado di toccare argomenti universali, come Atlantide per il bronzetto Shardana, il moto perpetuo per l’orologio di Zamboni, le comete per la Stele di Caven e la connettività corpo-mente per l’uovo dell’eclissi. Verrà inoltre esposta una panoramica di quello che si può trovare in Emilia e nei dintorni della nostra regione.  

Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso libero. 

14 febbraio 2014

IL MISTERO DEI MARUBINI: UNA RICETTA DI ORIGINE ARABO-PERSIANA



di Michele Scolari


Nelle enciclopedie di due medici arabi di Baghdad si trova il prototipo dei ravioli (inclusi i marubini cremonesi), tradotto nel Duecento a Venezia da un cremonese, Giambonino da Cremona, che lo inserì assieme ad altre specialità arabe nel suo Liber de ferculis et condimentis. E’ il sambusuch, prelibata sfoglia di pasta triangolare o a mezzaluna, riempita con un trito speziato di carni (ma esistente anche nella versione “dolce”), originaria dell’India e diffusa ancor’oggi tra Iran e Arabia Saudita.
Nel fondo manoscritti della Biblioteca Nazionale di Parigi è conservato un codice miscellaneo membranaceo (segnalato all’inizio del ‘900 dal filologo medievista Cremonese Francesco Novati sull’Archivio Storico Lombardo) prodotto alla corte angioina di Napoli per Carlo II (forse completato sotto il successore, Roberto II); portato in Francia verso la fine del Trecento dal Duca di Berry, fratello di Carlo V, il libro, nel 1404, venne donato ad una fondazione religiosa (la Sainte-Chapelle di Bourges), donde passò alla Nazionale parigina. Si tratta di un codice composto da 162 carte (da 251 x 360) scritto su due colonne, di mano italiana, con capilettera finemente miniati. La sigla, Ms. Lat. 9328, non dice nulla ai non esperti, ma dietro quella sequenza di numeri si cela una raccolta di otto manoscritti latini (databili tra il XII e il XIII secolo), l’ultimo dei quali, alquanto rovinato, contiene una ricetta che mostra come il “razionale” dei ravioli (cappellacci, quinquinelli, anoli, pansotti, ecc., inclusi i marubini cremonesi), derivi da una specialità arabo-persiana giunta in Pianura Padana dall’oriente islamico attraverso la mediazione di Venezia e delle corti sveva e angioina dell’Italia Meridionale, assieme ad altri piatti (tra i quali, duole ammetterlo, le lasagne – dall’arabo lauzinaj – e, duole ancor più ammetterlo, certi vermicelli di pasta di semola precursori degli spaghetti – chiamati in arabotrija).

La preparazione degli spaghetti nell’edizione Trecentesca delle Tavole di Butlan
















La raccolta angioina si apre con il Liber ruralium comodorum a Petro de Crescenciis cive Bononis (il più importante trattato di agronomia dell’Occidente medievale), seguito da un’operetta sulle api, Apibus non longe statione a domiciliis, da un Tractatus de planctationibus arborum(entrambi anonimi) e da due opere di gastronomia: ilTractatus quomodo preparando et condienda omnia cibaria quina e il ben noto Liber de coquina. A questi, seguono poi due “regole per la salute”: un trattato senza titolo sull’arte di conservare la giovinezza e il rifacimento del Regimen sanitatis di Salerno attribuito al medico Arnaldo da Villanova. Da ultimo, compare un liber acephalus (ossia, un manoscritto mancante della parte iniziale) ed è il libro che ci interessa: il titolo, ricavato dall’explicit apposto in calce, recita “Libro delle vivande e dei condimenti” (“Liber de ferculis et condimentis”) ed altro non è che l’estratto in traduzione latina del Cammino dell’esposizione di ciò che l’uomo utilizza (Minhaj al-bayan fina yasta miluhu al-insan), la monumentale enciclopedia compilata dal grande medico iracheno Ibn Jazla (noto all’Occidente latino come Buhahylyha Bingezla): le sue 2170 voci rappresentavano all’epoca la descrizione di tutti i medicamenti, di tutte le bevande e di tutti gli alimenti e dei loro composti, disponibili nell’impero arabo. L’enciclopedia fu redatta dal medico nella Baghdad dell’XI secolo, sfarzosa ed elegante capitale del califfato abbaside nonché centro della cultura araba persianizzata dopo le conquiste dell’VII e VIII secolo. L’élite culturale arabo-persiana coltivava l’arte del ben vivere, il piacere per i begli oggetti, il lusso del vestiario, l’amore per gioielli e profumi e, non da ultimo, anche lo sfarzo dei banchetti. Contestualmente, si diffondeva la scienza islamica (che aveva accolto il retaggio della medicina greca e persiana integrandolo con nuove scoperte): completa e sofisticata, con metodi diagnostici e terapeutici altamente sviluppati assieme una ricca farmacologia, la medicina islamica riservava grande spazio alla dietetica umorale, fiorita nella letteratura medica araba dall’Andalusia a Baghdad, in numerosi manuali della buona salute e compendi di alimenti usati come medicinali semplici, tra cui si ricordano ilCanone della medicina di Avicenna (X sec., tradotto da Gerardo da Cremona), le Tavole della Salute di Ibn Butlan (XI sec.), il già citatoCammino di Jazla (XI sec.) e il Compendio delle vivande di Al Baghdadi (XIII sec.).
 


I marubini di Cremona

 

Tornando al Liber de ferculis, la sua edizione critica completa è stata pubblicata per l’editore Schena nel 2001 da Anna Martellotti (Il liber de ferculis. La gastronomia araba in Occidente nella trattatistica dietetica), ricostruendo parte del testo latino, perduto o illeggibile per vaste macchie di umidità, su una versione tedesca quattrocentesca conservata alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco. Delle oltre 2170 voci contenute nell’enciclopedia di Jazla, il Liber ne traduce 83 (tutte ricette gastronomiche di specialità arabo-persiane, dove si trovano anche le ricette del chaloe e del qubbayt, antenati orientali del torrone): tra queste, compare anche il prototipo islamico di tutti i nostri tipi di ravioli (introdotti nella Pianura Padana intorno alla metà del XIII secolo), inclusi i marubini cremonesi: è il sambusuch, prelibati fagottini di sfoglia all’uovo


Il sambusuch arabo-persiano


 (di forma triangolare o semicircolare) riempita con un trito di carni soffritto chiamatoMudacathat (descritto anche nelle Tavole della salute, redatte nella prima metà dell’XI dal medico iracheno IbnButlan, di poco precedente a Jazla): il trito può essere speziato (Mudacathat kafuriya, ossia “trito di Kafur”) oppure condito con succhi agri (Mudacathat hamida). Di origine probabilmente indiana e diffusa nei califfati arabi tra il IX e il XII secolo tramite la mediazione persiana, questa sfoglia ripiena antenata del nostro raviolo è diffusa ancor oggi tra Iran e Arabia Saudita con i nomi di Sanbusaj (persiano Sanbusak), Samosa oSambusa (vedi sotto i testi delle ricette di sfoglia e ripieno). In Jazla e Butlan, il mudacathat può trovarsi sia inserito in una sfoglia di sambusuch, sia confezionato in semplici polpettine di farcia, che prendono il nome arabo della frutta a cui sono assimilate per forma e dimensione (dall’albicocca alla mandorla, dalla nocciola all’arancia). A proposito di questa usanza araba, varrà la pena di sottolineare che anche una delle possibili etimologie de termine “marubini” deriverebbe da un frutto, “maròon”, termine dialettale cremonese che indica la castagna, la cui dimensione avrebbe dato la misura per la quantità di ripieno (l’altra etimologia riconduce il nome alle foglie del “marrobbio”). C’è anche chi ha avanzato l’ipotesi che il termine marubini possa costituire la risultante tra il cremonese “maròon” e l’arabo “rub” (misura di capacità).



Altro esempio di Sambusuch


I tortelli di Crema


Spostandoci a Crema, si osserva come anche i tortelli della storica “rivale” di Cremona presentino caratteristiche non meno orientaleggianti dei marubini cremonesi: il loro ripieno comprende infatti amaretti, mostaccini (biscotti speziati con dentro Armelline di Damasco, ovvero piccole mandorle contenute nei noccioli delle albicocche – frutto introdotto in Occidente proprio dagli arabi), uvetta, menta e noce moscata; il tutto sapientemente amalgamato in un delicato equilibrio di sapori che richiama proprio il tipico gusto arabo-persiano per le miscele dolci-salate. Ed anche i tortelli di Crema potrebbero derivare dal sambusuch, del quale esisteva anche una versione dolce, in cui la sfoglia all’uovo era riempita con un trito di zucchero, mandorle pestate, acqua di rose, canfora ed altre spezie. Questa seconda versione del sambusuch non compare nell’enciclopedia di Jazla, ma è presente nelle Tavole di Butlan e nel Compendio di Al Baghdadi con il nome dimukallal (lett. “incoronata”), entrambi tradotti alla Corte di Re Manfredi nel Duecento e, successivamente, in Italia Settentrionale nel Trecento.




Un piatto di Sambusuch


Sia i marubini che i tortelli cremaschi non verrebbero menzionati prima del Quattrocento (i primi nell’ambito di un pranzo “diplomatico” allestito nel 1415 daCabrino Fondulo, i secondi legati alla leggenda di un cuoco ebreo che vinse una gara culinaria indetta dai Gonzaga a Mantova – vedi sotto), ma è probabile che a Cremona e Crema li conoscessero da qualche secolo. In genere infatti, già tra il Duecento e il Trecento nei ricettari meridionali e padani (sia in latino che in volgare) compaiono i termini batutum e rafiole: il primo è un neutro latino (derivato dall’aggettivo batutus, ossia “tritato col coltello”) che indica in genere i pastumi di carne per diversi tipi di ripieni, il secondo è il femminile del termine “ravioli”, dove invece l’impasto di carne può essere racchiuso in una sfoglia. I ravioli, sia asciutti che in brodo di carne, si trovano nel già citato Liber de coquina, anonimo compilato alla corte angioina nel XIII sec. (rilegato assieme al Liber de ferculis nel manoscritto conservato a Parigi) e nell’Anonimo Veneziano del XIV sec. Certi “ravioli di pasta senza crosta” (“raviolos sine crusta de pasta”), considerati un’ambita leccornia, sono ricordati, assieme alle lasagne, nell’anno 1284 della Cronica del francescano di Parma Salimbene de Adam. E di ravioli, sempre cotti nel brodo di carne, parla addirittura il Decameron diGiovanni Boccaccio (XIV sec.), all’interno della novella di Calandrino e l’Elitropia, nella descrizione del paese di Cuccagna: “eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa faceano che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù e chi più ne pigliava più se n’aveva”. I ravioli dunque erano ben conosciuti nei Comuni e nelle corti dell’Italia padana e meridionale sin dalla metà del XIII secolo. Ma da dove arrivavano?






Se l’etimologia del nome è ancor oggi incerta, altrettanto non si può dire per il loro precursore: esso giunse alle sponde del Belpaese dalle calde terre dell’Islam, da una ricetta arabo-persiana, quella appunto del sambusuch. Uno dei canali di diffusione fu l’Italia Meridionale. Qui, dapprima con la dominazione araba e la Scuola medica di Salerno, poi con la corte di Federico II di Svevia, l’instaurarsi di un sapere medico che dava nuovo spazio al cibo andava di pari passo con l’introduzione dell’alta cucina arabo-persiana: sotto Federico, che ricreò attorno alla sua corte lo stesso ambiente poliedrico e permeato d’interessi scientifici e artistici che aveva caratterizzato i grandi califfati abbasidi, fiorirono sia la poesia siciliana sia una letteratura dietetica e gastronomica a partire dalla traduzione di compendi medici arabi. In Italia Meridionale, tra il 1254 e il 1266, venne patrocinata dal Re Manfredi la traduzione in latino delle Tavole di Butlan. E, tra il 1266 e il 1285 per cura di Carlo I d’Angiò si tradusse un’altra opera di Jazla, le Tavole delle malattie e dei morbi dell’uomo, resa in latino dal medico siculo-ebreo Faraj Ben Salim con il titolo di Tacuinum aegritudinum et morborum.
L’altro grande canale di diffusione della gastronomia araba in Italia (soprattutto in Pianura Padana) fu Venezia. E proprio qui lavorò l’autore del Liber de ferculis, il quale, gioverà dirlo pensando ai marubini, era proprio un cremonese:Giambonino da Cremona (vedi sotto), probabilmente un medico, docente di filosofia all’Università di Padova. Nell’explicit, posto in calce all’inizio del manoscritto, si legge «tradotto a Venezia dall’arabo al latino dal Maestro Giambonino Cremonese» (“translatus in Veneciis a magistro Jambobino Cremonensis ex arabico in latinum”).


Venezia, in una miniatura del XIII secolo


Dopo la decadenza della scuola di Salerno, il sapere medico (incluso quello igienico-dietetico) aveva attecchito proprio nell’area emiliano-veneta, attorno alle Università di Bologna e Padova. E a Venezia, sia sulla spinta dei due vicini centri accademici, sia sulla scia dei fiorenti commerci con l’oriente, doveva essere ben conosciuto il Cammino di Jazla (oltre alle Tavole di Butlan), che sul finire del Duecento, con le sue 2170 voci, rappresentava la più vasta e completa enciclopedia di tutti i prodotti alimentari e medici disponibili sui mercati orientali (con tanto di caratteristiche merceologiche, paese di provenienza, applicazioni terapeutiche, preparazione, grado di efficacia e rimozione del danno). Tanto che la Martellotti non ha scartato l’ipotesi che fosse stata la stessa Repubblica ad aver commissionato la traduzione dell’opera a Giambonino. La città mercantile aveva infatti tutto l’interesse a diffondere anche tra le contrade padane la conoscenza di vivande che mettevano in giusto risalto le materie prime di provenienza orientale che essa offriva su tutti i mercati, e specialmente ad evidenziare i benefici effetti che la medicina riconosceva alle preparazioni complesse della gastronomia arabo-persiana. La tendenza all’esotismo culinario nell’Europa medievale era rafforzata dalle importazioni delle spezie orientali che aumentavano sempre più con l’arricchirsi dell’Occidente e trovavano in Venezia il centro di scambi sia per gli antichi legami della città con Bisanzio sia per i nuovi rapporti instaurati in seguito alle Crociate. Dalla Serenissima e dal Meridione, dunque, il sambusuch (come numerosissime altre specialità arabo-iraniche), si diffuse in Italia e nella pianura padana, assumendo poi caratteristiche proprie da luogo a luogo per forma, farcia, dimensioni e tecniche di cottura (già nella traduzione di Giambonino, talvolta le specialità arabe vengono adeguate ai gusti e alle abitudini culinarie della tradizione occidentale più povera).



Miniatura europea di al-Razi in un capolettera della traduzione latina di Gerardo da Cremona


Non c’è da meravigliarsi dunque che il precursore di specialità come i nostri marubini (oltre che del nostro torrone e, forse, anche della mostarda) vanti un prototipo arabo-persiano (
leggi l’influenza araba a Cremona nel Medioevo). A partire dal XII secolo Cremona ha intrattenuto relazioni durature non solo la cultura islamica ma anche con paesi limitrofi o appartenenti all’impero arabo. Per cominciare, andrà ricordato che, secondo la notizia riportata nel Chronicon del domenicano bologneseFrancesco Pipino (1316), intorno al 1187 la Biblioteca del convento di S. Lucia a Cremona entrò in possesso di almeno 72 testi scientifici arabi tradotti in latino a Toledo da Gerardo da Cremona (tra cui il Canone di Avicenna e l’Almagesto di Claudio Tolomeo) e vi si radicò in seguito un’attiva scuola di traduttori dall’arabo e profondi conoscitori della tradizione arabo-persiana, impiantata da Pietro da Cremona (nipote di Gerardo), sul modello di quella toletana fiorita nella metà del XII secolo attorno al vescovo Raimondo (leggi Gerardo e la scienza araba a Cremona). Accanto ai nuovi testi arabi messi a disposizione dall’intenso programma di traduzioni e la cui conoscenza alimentava i dibattiti scientifico-tecnici e filosofici, non vanno dimenticati i rapporti instaurati tra Cremona e l’Oriente con le Crociate ed i commerci.




A partire dal 1090 infatti, durante la riconquista del Santo Sepolcro, in Terra Santa si alternarono per qualche tempo governatori di origine cremonese. Tra il 1189 e il 1190 alcuni cremonesi parteciparono alla Terza Crociata con due navi fatte costruire sul Po. Ancora tra il settembre del 1202 e l’autunno del 1205, il celebre vescovo “cosmopolita” di CremonaSicardo si recò in Terra Santa raggiungendo l’esercito della Quarta Crociata con circa mille armati cremonesi al suo seguito (secondo gliAnnales Cremonenses), che vennero poi lasciati per qualche tempo a presidiare Costantinopoli dopo la conquista da parte dei Crociati. E ancora un contingente cremonese accompagnò Federico II alla Sesta Crociata: nel registro del cardinale Ugolino d’Ostia si ha traccia delle somme versate in questa occasione al marchese Cavalcabò, accompagnato da 4 cavalieri e 6 servitori a cavallo, e dai conti Guido e Manfredo da Camisano, accompagnati da 6 cavalieri. Nello stesso periodo, sempre a Bisanzio (la porta dell’Europa verso l’impero islamico), l’ufficio di cambio era diretto da due cremonesi. E nel Duecento, all’apogeo della potenza economica di Cremona, i suoi mercanti facevano scalo nei porti dell’intero mediterraneo, da Valencia sino a Bisanzio: quotidianamente alle sponde del Po approdavano decine di navi che recavano broccati e tappeti, sale, spezie ed i più raffinati prodotti d’oriente, dalle mandorle di Sicilia, al miele d’Iblea, dai pistacchi dell’Anatolia ai fichi secchi: prodotti che, con molte altre merci, erano destinati ai grandi mercati dell’Occidente medievale, tra cui le fiere di Champagne o il mercato di Montpellier.



Federico II entra a Cremona sul Carroccio trainato dal suo elefante

Oltre che con i commerci, con le Crociate e con le traduzioni dall’arabo, dev’essere stato anche e soprattutto con il “filoislamico”Federico II di Svevia che i prototipi arabi di specialità come torrone e marubini fecero il loro ingresso a Cremona. Dal 1220 al 1250 l’imperatore, appoggiato dal vescovo Sicardo, aveva eletto la città capitale pro tempore del Nord Italia e quartier generale dell’esercito imperiale (del quale facevano parte anche squadroni di arcieri saraceni di Lucera). Pur non potendo vantare la stessa importanza e magnificenza delle corti di Napoli e Palermo, Cremona ospitò Federico ben sedici volte nella prima metà del Duecento, alloggiato in un palazzo imperiale nei pressi del monastero di S. Lorenzo ed attorniato dalla sua corte di intellettuali islamici provenienti dai grandi califfati abbasidi di Baghdad: tra costoro v’erano anche numerosi gastronomi e cuochi che devono quindi aver operato diffusamente anche all’ombra del Torrazzo. E spesso la presenza imperiale si accompagnava a feste e cerimonie di grande lustro, inclusi banchetti nuziali: Federico celebrò a Cremona una magna curia – un’assemblea di tutta la sua corte – con grandi feste dopo il matrimonio di sua figlia, Selvaggia di Svevia, con Ezzelino da Romano; e ancora a Cremona l’imperatore procedette all’addobbamento del figlio Enzo nel 1238, e di alcuni nobili lombardi nel 1245, mentre nel gennaio 1249 si celebrarono le seconde nozze di Enzo. Conoscendo l’infatuazione dell’imperatore per la cultura araba (inclusa la gastronomia) e considerando il suo staff di cuochi islamici, non è difficile supporre in questi banchetti la presenza di specialità esotiche provenienti dai califfati persianizzati d’Oriente. Anzi, a questo punto sarebbe addirittura suggestivo supporre che la specialità araba del torrone possa essere comparsa a Cremona nella sua forma primigenia proprio sulla tavola di uno di questi banchetti nuziali, piuttosto che su quella in occasione del matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza (leggi l’articolo sull’origine araba del torrone); contestualmente, si potrebbe anche ipotizzare che la tradizione di mangiare torrone a Natale possa essere ricondotta ad un dolce esotico con in quale Federico usava festeggiare il suo compleanno, che cadeva proprio il 26 dicembre. Ciò detto, è assai probabile che specialità orientali come i ravioli e il torrone fossero entrate a Cremona addirittura prima che Giambonino stendesse il Liber de ferculis: esso è infatti databile agli ultimi anni del Duecento, quindi posteriore al periodo “federiciano” di Cremona. E in alcuni punti, il Liber di Giambonino è vistosamente influenzato da consuetudini alimentari arabe già invalse ed affermate in Pianura Padana. Del resto, proprio l’imperatore si fece promotore di una sintesi gastronomica coerente tra la tradizione culinaria occidentale germanica (con un occhio ad arrosti e bolliti non conditi) e la raffinata tradizione arabo-persiana che si era sviluppata dopo l’insediamento della dinastia abbaside in Iraq, diffondendosi su tutto il territorio islamico (dall’Iraq all’Andalusìa). E quella operata sotto Federico è una sintesi che sembra esistere e resistere ancor oggi anche nella gastronomia tradizionale cremonese, dove coesistono specialità di origine orientale (come marubini e torrone) con lessi ed arrosti (di matrice germanica) accompagnati dalla mostarda (altra specialità probabilmente derivata dalla tradizione orientale della frutta candita e sciroppata).



L’INVOLUCRO DI SFOGLIA



Un esempio di moderno sambusuch (samosa o sambusaj)



Così Jazla spiega la preparazione delsambusuch (dove il nome della vivanda indica la forma stessa del contenitore – in arabo sambusuch è tutto ciò che ha forma triangolare): “fare un battuto di carne macinata, acidularla con succo di sommacco o di limone, farcirne le foglie di sambusuch, e friggerle”. Nella traduzione latina delle Tavole della Salute di Ibn Butlan, eseguita qualche anno prima di Giambonino da un traduttore rimasto anonimo alla corte di Re Manfredi, tra il 1254 e il 1266, si trova l’accostamento del sambusuch con i ravioli: «Sambusuch, ovvero “calzoncino di pane”: la sua pasta è indigesta quando non è ben cotta. E’ un piatto, chiamato anche “ravioli”, composto da carni finemente tritate, uova ed erbe: e la sua stessa pinguedine ne rende difficile la digestione» (“Et sambusuch, id est, Calizon panis: quorum pasta non digeritur, quando non bene decoquuntur cum fiunt. Et Sambusuch est cibus, qui dicitur Ramoli, factus de carnibus minutim incisis, et ovis, et herbis: et impedit digestionem eorundem unctuosum eorum”). E’ interessante notare come il traduttore stabilisca una corrispondenza tra ilsambusuch e i nostri ravioli (che trascrive erroneamente “ramoli”), indicandoci quale fosse la strada che la preparazione araba aveva preso in Occidente. Nel Duecento inoltre, i termini “rafiole” e “rafioli” o “ravioli” (la cui etimologia è incerta) potevano ancora indicare sia il composto risultante da una farcia soda inserita in una piccola sfoglia di pasta, sia una semplice polpettina di farcia bollita o fritta (in questo senso, nella tradizione orientale il sambusuch, o raviolo, si configura come una variante delle polpette). Ad esempio, nel Liber de cocquina dell’Anonimo Angioino il ripieno dei ravioli non viene racchiuso nella sfoglia ma in un budello, ovvero la «pellicola che sta attorno alla corata del maiale» in modo da farne «tanti piccoli pani».



IL RIPIENO DI CARNE




Il ripieno del sambusuch

Così Giambonino traduce la ricetta del Mudacathat (o Mudaqqaqat) descritto nel compendio di Ibn Jazla, ossia il trito di carne utilizzato per farcire la sfoglia all’uovo delsambusuch: «E’ migliore perché è fatto con carne di montone; ed è calda e umida e rafforza il corpo e conviene a coloro che sono consunti per stravizi o per lavoro o per afflizione, o angoscia o paura e provoca nausea. [...] E si fa così, ed è chiamata mudacathat: prendi petti di gallina e tagliali in piccoli pezzetti e aggiungici una libbra di carne di montone e tagliala con un coltello in piccoli pezzetti e mescolaci 20 dracme di grasso di pollo, ovvero di strutto di pollo, e rimestalo nella pentola finché il grasso si sia ben mescolato con la carne, e aggiungici 20 dracme di salgemma e 20 dracme di cipolla bianca tagliata fina, e un poco di coriandolo e cannella, e quando ti sembra che abbia un buon sapore, aggiungici una libbra di acqua e fai bollire finché sia mezzo cotto; e poi prendi 30 dracme di mandorle pelate e pestale con acqua di rose facendole diventare come latte, e aggiungilo e mescolalo nella pentola, e getta nella pentola un pugno di ceci puliti e un sacchetto di lino in cui siano racchiusi cumino e zenzero pestati, e quando è cotto versaci sopra due uova sbattute, e dallo a chi vuoi» (trad. Martellotti). Come rimozione del danno («remotio nocumenti») viene suggerito di imbibere il trito con acqua di sommacco (succo agro simile al limone ottenuto dai frutti di una pianta delle anacardiacee, Rhus Coriaria): un accorgimento per controbilanciare il sapore forte, selvatico e quasi nauseante della carne di montone. La ricetta del mudacathat compare, seppur con meno dovizia di particolari, anche nella traduzione latina delle Tavole della salute di Butlan (tavola XXIII, “De ferculis infrigidatis, seu frixis, et assis supra carbones et assis in veri pinguedine unctis”).



GIAMBONINO DA CREMONA




Un traduttore in una miniatura del XIII secolo


Chi era Giambonino da Cremona? Egli doveva essere con tutta probabilità un medico, come sembra indicare l’appellativo “magistro” posto accanto al suo nome nell’explicit in calce al manoscritto di Parigi. Enrico Carnevale Schianca lo identifica con Zambonino da Gazzo, medico di corte degli Estensi e docente di filosofia a Padova. Costui, figlio dei signori di Gazzo (vicino a Cremona, sulla via Postumia), sarebbe stato costretto, ancora fanciullo e orfano di padre, a esiliare in seguito alle lotte che affliggevano il Comune cremonese e che avevano coinvolto la sua famiglia: la madre, nobile bresciana, lo aveva affidato per l’istruzione all’abate di Praglia, che lo inviò poi a Parigi; addottoratosi rientrò a Venezia nel 1282, lasciata successivamente per un incarico all’Università di Padova, dove nel 1262 risulta rettore della Facoltà di fisica e scienze naturali e dove è testimoniato ancora nel 1298. Probabilmente conosceva la lingua araba di prima mano, anche se non è escluso che per la traduzione del compendio di Jazla si fosse fatto affiancare da un mercante di madrelingua araba per individuare le esatte corrispondenze degli ingredienti ed i nomi delle vivande. L’intestazione del Liber riferisce anche che Giambonino tradusse il libro di Jazla a Venezia, città che, a partire dalle Crociate, intrattenne intensissimi rapporti commerciali da un lato con Cremona e Crema, dall’altro con con l’Oriente. Gli interessi arabistici di Giambonino, da un lato possono essere visti come prosecutori di quella scuola di traduttori dall’arabo che dovette esistere proprio a Cremona, nel monastero di S. Lucia, a partire da Gerardo da Cremona (il più grande traduttore dall’arabo del XII secolo dopo Costantino l’Africano). Ma dall’altro il Liber de ferculis è collocabile nella cornice di quella cultura medica, nutrita della medicina araba, che si era impiantata nel Duecento in area emiliano-veneta, a partire dalle Università di Bologna e Padova: una cultura, prosecutrice di quella della celebre Scuola Medica di Salerno (fiorita nel X secolo), in cui si collocano parecchi testi di carattere igienico-dietetico, basati sulla medicina islamica e destinati all’igiene personale (tra cui quelle diMagninus Mediolanensis e Adamo da Cremona), legati soprattutto all’interesse per la conservazione della salute espresso dalle élites di corte, di Federico II di Svevia o di quella pontificia. Una versione latina delle enciclopedie di Jazla e Butlan (con tanto di tavole illustrative riprese dagli originali arabi) è tutt’oggi conservata alla Biblioteca Statale di Cremona, incluse nella miscellanea a stampa di Johann Schott (impressa a Strasburgo nel 1531) assieme ad altre opere di dietetica umorale araba come il Liber Abenguefiti de mediciniis et cibis simplicibus, estratto dal Kitab al-adwiya al mufrada del medico di Toledo Abenguefit Abdul Mutarrif, reso in latino da Gerardo da Cremona nel XII secolo.




IL “SAMBUSUCH” RICOMPARE ANCHE NELL’ORIENTALEGGIANTE RICETTARIO QUATTROCENTESCO DEL CREMONESE BARTOLOMEO “PLATINA” SACCHI


Bartolomeo Sacchi, detto il “Platina” (XV sec)


La versione di Ibn Jazla del Sambusuch e del Mudacathat, tradotta da Giambonino, si riconosce anche nel De honesta voluptate et valetudine (“Il piacere onesto e la buona salute”), composto nel 1475 dall’umanista cremonese di Piadena Bartolomeo “Platina” Sacchi (del quale esiste una meravigliosa traduzione di Luisa Piccioni, “Pàan e sapiéensa”, pubblicata nel 1978 e corredata con poesie in dialetto di Silvano Bottoni). Ed in ciò non vi sarebbe nulla di strano o di misterioso.
Le ricette inserite nell’opera infatti non furono opera del Platina, ma costui le inserì nel trattato attingendo in blocco dal Liber de arte coquinaria, la celebre raccolta di ricette compilata nel Quattrocento dal gastronomo comasco Maestro Martino de’ Rossi (“Martino de’ Rubeis”): il piadenese tradusse in latino le ricette del comasco e le inserì nel proprio trattato arricchendole di commenti e numerose lodi all’ingegno di Martino (sicché il titolo di “Cucina cremonese antica” con il quale viene spesso tradotto il De honesta voluptate et valetudine del Platina non sarebbe completamente corretto). Dal canto suo, Martino aveva attinto da trattati compilati alla corte sveva di Napoli come il Liber de coquina o il cosiddetto Meridionale (che riprendevano ricette arabe). Per questo, nonostante nella presentazione del De honesta voluptate Platina dica di voler trattare la materia gastronomica e le vivande «ad imitazione di Catone,Varrone, Columella e Celio Apicio», alcune ricette del trattato richiamano troppo da vicino vuoi pietanze dei compendi arabi di Butlan e Jazla, vuoi chiari riferimenti al Compendio delle vivande (Kitab al-Tabikh) del medico Al-Baghdadi, vissuto nel XIII secolo (due secoli dopo Butlan e Jazla): dai numerosi brodetti agri e in bianco, al riso con latte, mandorle e noce moscata (discendente dell’antico biancomangiare delle vigilie), sino a certe frittelle fatte con mandorle, latte, albume e acqua di rose. Ancora, scorrendo il trattato sino alla voce “Pasticcio in olla” (Pastillus in olla) si può constatare che è in tutto e per tutto simile al mudacathat descritto nelle ricette arabe di Jazla e Butlan. E il composto arabo-persiano di sfoglia e ripieno di carne, da cui derivano anche i nostri ravioli, si riconosce nel “Piatto di carne” (nella sezione dedicata alle Minestre), che sembra contenere qualcosa dei marubini: «fai cuocere bene una libbra di addome suino o di vitello, tagliala poi finemente e aggiungici mezza libbra di cacio stagionato grattugiato, erbe odorose sminuzzate, pepe, zenzero e chiodi di garofano. C’è chi mette anche un petto di cappone ben pestato, e fa bene. Prepara intanto una sfoglia, lavorando bene la farina, e tirala molto sottile. Con l’impasto fai delle palline non più grosse di una castagna e avvolgile in un pezzo di sfoglia, poi falle cuocere in brodo grasso e colorato con zafferano: richiedono breve cottura. Servi nei piatti e spolvera con cacio grattugiato e aromi dolci». Riguardo alle «palline non più grosse di una castagna», è interessante notare come una delle possibili etimologie de termine “marubini” sia fatta derivare proprio dalla castagna (in dialetto cremonese “maròon”) la cui dimensione avrebbe dato la misura per la quantità di ripieno.
Nel 1478 il Platina ricevette con sontuosa cerimonia l’incarico di prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana di Roma da Papa Sisto IV. E’ quindi probabile che a quell’epoca avesse avuto modo di consultare, oltre al Liber de arte coquinaria del comasco quattrocentesco Maestro Martino de’ Rossi, anche ricettari o trattati medico-dietetici più antichi come il manoscritto del Liber de ferculis di Giambonino (magari nella versione inclusa nella miscellanea angioina, assemblata all’inizio del Trecento in Sicilia per Carlo II d’Angiò) assieme alla traduzione latina delle Tavole di Butlan tradotta nel Duecento alla corte di Re Manfredi, o quelle miniate in Italia Settentrionale nel Trecento (il Tacuinum Sanitatis e il Theatrum Sanitatis), oltre a libri di cucina in volgare come il cosiddetto Meridionale attribuito all’epoca di Federico II.
Del resto, non sfugge neppure il fatto che gli stessi presupposti medico-dietetici sui quali (ricette a parte) si incardina il compendio del Platina non differiscano poi molto dalle premesse su cui si basavano la medicina e la dietetica umorale islamiche, contenute in numerosi compendi analitici di cibi usati come medicinali semplici: ovvero, l’unificazione della materia medica con quella alimentare, il cibo inteso come elemento al centro d’interessi che fanno riferimento alla medicina, alla cura del corpo e al desiderio di “star bene” (in latino, appunto, valetudo). Ed anche la raccolta del Platina, come nei compendi medico-dietetici medievali arabi ed italiani, è incentrata sull’alimentazione nel triplice aspetto agronomico, gastronomico e medico-sanitario, dove all’impostazione di alta gastronomia si affiancano le annotazioni dietetiche e mediche che accompagnano non solo ogni ricetta ma anche ogni materia prima.