15 febbraio 2013

Una chiesa costruita in previsione della fine del mondo - Il complesso abbaziale di Castione Marchesi ed i suoi misteri nascosti nei mosaici, nei sotterranei, nel sepolcreto e nella vicina terramara


di Paolo Panni
L’imponente chiesa abbaziale di Castione Marchesi, “tappa” rilevante della via Francigena, posta a due passi da Fidenza, fa parte di un insediamento complesso fortificato comprendente la chiesa, il monastero e ciò che resta della rocca.




Qui si susseguono oltre mille anni di storia e di affascinanti misteri che si osservano e avvicendano nei mosaici, nei capitelli, sulle mura, nel sepolcreto: addirittura nei vicini appezzamenti agricoli.
Il sacro edificio fu eretto, fra il 982 ed il 1000, per iniziativa di Adalberto degli Obertenghi (marchese di Massa e capostipite della nobile famiglia dei Pallavicino) e della moglie Adelaide e fu quindi donata, col titolo della Beata Vergine Assunta, ai monaci Benedettini.
Secondo la tradizione, Adalberto avrebbe attuato il progetto mosso da pietà cristiana. Infatti, dopo una visita sul posto trovò una piccola, semplice chiesa e decise di costruire questa molto più grande ed insigne. Ma, stando sempre alla tradizione, decise di fondare questo edificio per acquistare, di fatto, meriti e privilegi di fronte a Dio, in previsione nientemeno che della fine del mondo che, secondo le credenze dell’epoca, avrebbe dovuto verificarsi allo scoccare del millesimo anno dell’Era di Cristo.
Ma che fine ha fatto un così grande benefattore come Adalberto, capostipite della famiglia Pallavicino? Dove sono stati posti i suoi resti? E’ ancora nascosto in questo edificio? Sembra proprio che il suo corpo sia ancora qui, “vegliato” dalle poderose mura di questo magnifico complesso monumentale e religioso.



Lo confermerebbe, in modo chiaro e netto, una grande iscrizione marmorea posta all’interno, a lato del portale d’ingresso, in cui vengono ricordate le benemerenze dello stesso fondatore. Una lapide scritta in latino, che si traduce facilmente con queste parole: “Non dubitar di credere custodite sotto questo marmo pario le ceneri ettoree e le reliquie di un fiero Achille e capo cesareo. Adalberto, nelle armi famoso e nella pietà, un tempo speranza sicura della flotta d’Italia sotto la cui guida la Corsica fu sottomessa ai trionfi di Roma e la barbara gente scacciata dall’Urbe italica, Marchese, nobile duca del Lazio, fondatore di questa Chiesa, in questa terra è tumulato. La parte più nobile gioisce nel cielo. Morì l’anno di salvezza 1034, 6 gennaio”.



Se, dunque, l’iscrizione (certamente fatta apporre da un Pallavicino) non lascia alcun dubbio sull’avvenuta sepoltura di Adalberto nella chiesa, c’è un particolare che lascia aperto ancora qualche interrogativo. La tradizione popolare ligure, infatti, vuole che gli Adalbertini siano stati sepolti nell’Isola del Tino. In questo caso potrebbe essere stata fatta una eccezione ed Adalberto potrebbe ancora trovarsi in questa chiesa. Ma dove? E’ ormai di qualche decennio fa l’esplorazione del sepolcreto posto sotto il presbiterio, avvenuta nel corso di lavori di restauro. In quell’occasione, alcune tombe scoperte, fra la sorpresa dei presenti, si rivelarono in buona parte vuote. In una di queste, invece, apparve uno scheletro parzialmente ricoperto di paramenti apparentemente sacri o, forse, nobiliari. Era forse quello di Adalberto? Difficile stabilirlo, ma il fatto che fosse affiancato dai resti mortali di tre probabili monaci lo confermerebbe. Fra l’altro, appena entrato a contatto con l’aria, lo scheletro in questione si disciolse. Rimase una lunga chioma bionda, racchiusa in un cappuccio, con le due croci della stola e, incisi sulla pietra che fungaie da cuscino, un nome, una data e una qualifica: “Patricius absgubernator, 1630”. Particolari, quelli della stola e dell’iscrizione, che escluderebbero la possibilità che quello fosse il corpo del fondatore. In quell’occasione si sarebbero forse potute appurare ulteriori tumulazioni dando una risposta forse definitiva alle vicende riguardanti Adalberto e la moglie Adelaide. Ma ne mancò il tempo e, forse, la volontà. Ancora oggi sul retro della chiesa, nella parte esterna, rimangono evidenti i segni di due cunicoli, ostruiti da mattoni e detriti. Dove conducono? Forse ai sotterranei o ad un passaggio segreto? O, chissà, al sepolcreto posto sotto il presbiterio?



Difficile stabilirlo: inutile dire che un intervento di scavo sarebbe quanto mai affascinante (ma più che mai improbabile) e potrebbe portare a nuove ed importanti scoperte. Forse a dare anche una risposta alle sepolture dei santi Proto e Giacinto? I due martiri, secondo quanto tramandato dalla storia, furono sepolti nel cimitero di Bassilla (poi di San Ermete). Nel 1845, fra l’altro, le loro ossa furono trovate in un cubicolo che papa Damaso aveva fatto ripulire dalla terra franata e in cui aveva fatto porre una lapide che ricordava come Proto e Giacinto fossero fratelli martiri. La tradizione narra la loro vita in modo leggendario. Essi sarebbero stati due fratelli cristiani eunuchi, schiavi di Eugenia, figlia del nobile romano Filippo, prefetto di Alessandria d'Egitto. Convertita al cristianesimo, Eugenia avrebbe ceduto i due giovani alla nobile Bassilla, convertitasi a sua volta grazie ai loro insegnamenti. Denunciati dal fidanzato di quest'ultima, sarebbero stati tutti martirizzati. Al di là della leggenda, è certo che la loro esistenza e il loro martirio sono stati storicamente comprovati. La loro memoria è infatti celebrata nella Depositio martyrum di Roma, nel Sacramentario Gelasiano (ms. di S. Gallo), nel Gregoriano, in vari Itinerari (Salisburgense, Epitome de locis sanctis...) e nel Calendario marmoreo napoletano. Tuttavia, una ricerca compiuta qualche anno fa a Monte Oliveto Maggiore dal castionese Germano Meletti (appassionato cultore di storia locale) ha fatto emergere, nella vasta biblioteca dei monaci Olivetani (che ressero l’Abbazia di Castione dopo i Benedettini) un documento in cui si attesta che i due santi sarebbero, invece, sepolti proprio a Castione Marchesi.


Un errore storico? Che cosa infatti poteva avvicinarli a questa località posta sulla via Francigena? Chi ha scritto quel volume, cosa sapeva, eventualmente in più, della vita di questi due martiri? Domande che, al momento, non sembrano davvero trovar risposta.
Il complesso abbaziale, grazie all’opera dei monaci, fu un centro religioso, culturale ed economico di particolare importanza. L’edificio attuale fu modificato nel XVIII secolo dai monaci Olivetani, subentrati ai Benedettini nel 1487, con il prolungamento dell’abside, l’aggiunta di due cappelle, la costruzione del campanile e la chiusura delle finestre romaniche.
Il luogo, così come gli altri monasteri sorti lungo le vie di grande comunicazione e come quelli cittadini, ebbe un ruolo importante sulla vita locale. Nel medioevo, come noto, furono i religiosi a conservare e trasmettere la cultura e il sapere medico; tra le mura dei conventi trovarono accoglienza anche pellegrini, viandanti e poveri.
L’Abbazia di Castione Marchesi si trova lungo la Via Cistercense a metà strada fra l’Abbazia di Chiaravalle della Colomba e quella di Fontevivo e rientra nella “catena” dei monasteri sorti in epoca medioevale a “controllo” delle strade. Da ricordare, ad esempio, quelli di Bobbio, Nonantola, ed i già citati Chiaravalle e Fontevivo.



La chiesa in stile romanico, con accenti gotici, presenta una facciata a capanna a doppio spiovente in cotto a vista movimentata, in senso orizzontale, da cornici ad archetti e, in verticale, da lesene.



All’interno non può che colpire, immediatamente, la conformazione delle tre navate. Le due laterali, infatti, sono palesemente asimmetriche e la motivazione si spiega ben presto. E’ noto infatti che gli antichi architetti fossero convinti del fatto che lo spirito maligno albergasse di preferenza negli edifici a struttura simmetrica. Nell’aula, gli archi a tutto sesto poggiano su capitelli completamente diversi fra di loro e con le tradizionali figure (con elementi fitomorfi e figure mostruose) rispondenti al simbolismo cristiano: le Arpìe, che impersonano l’egoismo umano; due leoni nell’atto di lottare con un serpente e l’altro di sbranare un uomo, ad indicare le tentazioni e l’ambizione del potere, che rendono gli esseri irragionevoli; le mitiche Chimere, simbolo della vanità umana.


Quindi, un richiamo alla futilità della vita non volta ad un fine superiore che è quello che il Creatore, effigiato al centro di un capitello, sembra indicare e che solo può dare quella pace annunciata dal portatore dell’ulivo che incede lieto e sereno. Tra l’altro, secondo un recente studio di Mariapia Branchi, i capitelli rimandano al repertorio figurativo di tradizione lombarda, con analogie coi capitelli del chiostro della vicina Chiaravalle della Colomba, datati entro il 1206.
Altro elemento di straordinario interesse è quello di un pavimento a mosaico, con tessere bianche, nere e rosse, quasi certamente del primitivo edificio (e per molti aspetti somigliante con quello dell’antica chiesa di San Savino, a Piacenza).


In uno di questi spicca una figura femminile abbastanza completa: potrebbe rappresentare l’anno che ha in mano sole e luna così come potrebbe essere la raffigurazione di una delle arti liberali: l’astronomia. Gli antichissimi litostrati vennero alla luce durante i lavori di abbassamento del livello sovrapposto alla prima pavimentazione, nella primavera del 1955. La loro interpretazione continua ad essere incerta. Inizialmente ritenuti come una allegoria del tempo e dei mesi dell’anno, sono stati più recentemente interpretati come allegoria delle arti liberali; in particolare la donna che regge una sfera, come evidenziato, sarebbe la raffigurazione dell’Astronomia. Il frammento con figura maschile che regge uno scettro rappresenterebbe il Re Davide (altri studiosi sono invece propensi a ritenerlo come la raffigurazione del mese di aprile, così effigiato, per altro, nella serie antelamica dei mesi a Parma) ed il busto proteso in atto di soffiare potrebbe essere visto come la raffigurazione di un Vento.

Sta di fatto che il mosaico, realizzato probabilmente nel XII secolo sul modello di disegni contenuti in codici miniati del tempo è, ad oggi, l’unico esempio di mosaico romanico nel parmense. E la gran parte di questa straordinaria opera d’arte si trova, tuttora, celata sotto la pavimentazione del sacro edificio. Là sotto, con ogni probabilità, si trova la chiave “di svolta” per dare una spiegazione definitiva a questo grande mosaico. I frammenti che oggi sono scoperti e visibili a tutti, sono stati rimossi dalla loro posizione originaria e posti lungo la parete di destra della chiesa. Da sottolineare che nel frammento più grande, quello in cui compare una figura femminile posta a ridosso di un tempio (probabilmente pagano) ed ai cui piedi giace soggetto un drago scudato, spicca una scacchiera. Quest’ultima, in tempi remoti, era un semplice simbolo magico che teneva lontano gli spiriti maligni. Si tratta, di norma, anche di un simbolo legato ai Templari, ma in questo caso è più che mai improbabile qualsiasi legame col celebre ordine cavalleresco che, comunque, in zona ha lasciato testimonianze importanti (vedi la stessa Chiaravalle della Colomba, ma anche Cabriolo, Santa Maria del Gisolo e Fidenza). Da ricordare anche che il gioco degli scacchi, forse originario dell’India, approdò in Europa proprio dalla Terrasanta, luogo di operazione dei Templari, importato dai soldati che tornavano dalle crociate con qualche piccola modifica occidentale. Si dice anche che i pavimenti del Tempio di Salomone (sulle rovine del quale alloggiavano i Templari in Palestina) fossero disegnati proprio di quadrati bianchi e neri, come simbolo della contrapposizione del bianco e del nero e, in senso allargato, del bene e del male, dell’istinto e della ragione. La scacchiera riporta al concetto di “dualismo” nel mondo della materia. positivo e negativo, maschile e femminile, luce e tenebre, alto e basso, intelletto e devozione, bene e male, fortuna e sfortuna, che si incrociano nello schema della vita di ogni essere umano. Gli stessi scacchi hanno un simbolismo significativo che riconduce, di fatto, ad un grande gioco universale in cui i poteri della luce e dell’oscurità si contendono il dominio del mondo, facendo sì che il campo in cui ognuno di noi si trovi ad operare sia pervaso da forze contrastanti. I diversi pezzi degli scacchi rappresentano ruoli e modalità. Il simbolismo del gioco si ricollega a quello della strategia di guerra in cui il combattimento si svolge tra pezzi bianchi e neri , fra luce e ombra, fra i Titani e gli Dei. In ogni caso, la posta in gioco è la supremazia del mondo, la vittoria anche su sè stessi, l’uscita da un conflitto tra la ragione e l’istinto, dell’ordine contro il caos, di una combinazione contro un’altra, delle diverse potenzialità del destino.
Sempre all’interno del sacro edificio, spicca una "Madonna col Bambino", rigidamente ieratica come una basilissa bizantina, dipinta a fresco sulla parete nella terza campata della navatella di sinistra. La Vergine, coronata e aureolata, è assisa in trono vestita di un ricco drappeggio seminato di fiori. Tiene in grembo, sorreggendolo con la destra, il Figlio Divino, che indossa una veste rossa e mostra, in una mano, la mistica colomba, mentre tiene con la sinistra un libro.

Portandosi invece all’esterno ecco emergere un particolare, finora, dai più ignorato e sul quale, invece, andrebbe posta maggiore attenzione. Nella porzione di parete posta fra il portone principale e l’unica porticina laterale, a mezza altezza si notano, sui mattoni, alcune iscrizioni colorate di rosso, che tendono a confondersi coi colori dei mattoni stessi.



Iscrizioni ormai quasi illeggibili, ma di tratto senz’altro ricercato o, comunque, antico. Chi le ha lasciate? E, soprattutto, quale messaggio potevano contenere? Impossibile al momento trovare una risposta; resterà forse misteriosa per sempre, dal momento che, come evidenziato, l’insieme è ormai pressoché illeggibile. Ma sorge più che mai spontaneo domandarsi che cosa potevano celare quelle iscrizioni.
A breve distanza dalla chiesa è poi possibile ammirare ciò che resta dell’antico complesso, preesistente alla chiesa stessa. Rimangono, di fatto, solo l’ingresso della cinta e un torrione molto rimaneggiato. L’ingresso ad arco reca ancora gli imposti per le catene del ponte levatoio e della saracinesca della pusterla; sopra l’arco si trova invece un bassorilievo raffigurante l’Assunta ivi posto negli anni ’80 del 1400. 

Da notare, fra l’altro, come l’intero complesso, nel bel mezzo della Pianura Parmense, sorga, di fatto, su un’altura. Circondato da poche case e da vasti appezzamenti a tratti ondulati. A prima vista, semplici e normalissimi campi. In realtà, invece, lo scrigno prezioso di un passato più che remoto e che affonda le proprie radici direttamente nella preistoria. Qui, nel secolo scorso è stata scoperta una interessantissima terramara risalente al Bronzo medio (secondo alcuni studiosi si tratterebbe del Bronzo Antico e, secondo il Pigorini, addirittura all’età della pietra).
  

Sembra che da questo insediamento piuttosto ampio e di lunga vita si siano diramate le genti che hanno popolato i territori circostanti. Quello che sorgeva laddove, oggi, si trova la pianura, era un villaggio palafitticolo di circa 14-20 ettari. I reperti ritrovati nelle campagne di scavo (che hanno visto all’opera eminenti personaggi come Luigi Pigorini e Pellegrino Strobel) degli anni 1861, 1862, 1863, 1870 e 1877, tra cui armi e utensili di selce, ma anche manufatti, urne cinerarie e suppellettili varie, ma anche pali in legno, travi, porzioni di tavolato e resti organici, sono conservati oggi nei musei di Parma, Piacenza, Viadana, Como, Milano, Torino, al Museo Pigorini di Roma e al Museo Peabody di Arvard (negli Usa).
A poche centinaia di metri dal complesso monastico, appartenuto ai Benedettini prima ed agli Olivetani poi, ecco invece ergersi un’altra imponente struttura, quella dell’Abbazia. Qui viveva l’abate di Castione e non è escluso che qui abbia dimorato anche Adalberto Obertenghi insieme alla moglie Adelaide. L’austero edificio è stato realizzato intorno al 982. Oggi abbandonato, conserva ancora gli archi di un antico caseificio retto dai monaci Olivetani. Non è escluso che questo sia uno dei primi luoghi in cui ha “preso forma” il celebre Parmigiano Reggiano. All’interno dell’imponente abbazia resta ancora una piccola chiesetta con un altare e le grate. La stessa struttura fu incendiata nel 1325 dal duca Galeazzo Visconti di Milano e tuttora, come si può vagamente osservare dalla conformazione del terreno, esiste un passaggio segreto sotterraneo che conduce dall’Abbazia al poco distante complesso abbaziale.
Passaggio i cui imbocchi si possono ancora oggi osservare ma che, ormai anni fa, è stato chiuso. Cosa conserva al suo interno? E’ solo un semplice cunicolo? O conduce, come vorrebbero alcuni, anche ad altre zone dei dintorni. E’ certo che fosse utilizzato dai monaci per eventuali necessità di fuga. Ma una sua riapertura, magari in presenza di speleologi, potrebbe aprire una finestra su particolari del passato andati dimenticati. A poca distanza dall’abbazia spicca inoltre un’altra dimora di antica origine. Qui dimorò Ilario Mercanti, detto “Lo Spolverini”, pittore di corte di Casa Farnese. Lo Spolverini era tenuto a realizzare tre “copie” di ogni sua opera, in modo da dotarne poi le sedi di Parma, Colorno e Piacenza. Ecco quindi che, probabilmente, a Castione Marchesi aveva trovato il “crocevia” in cui fissare la propria dimora.
Pugnali neolitici
Da evidenziare infine che, a Castione Marchesi, nel 1876 è stato ritrovato un ripostiglio di oggetti contenente sei pugnali bronzei a manico fuso della fine del periodo denominato Bronzo Antico. Quattro di questi pugnali sono conservati al Museo di Parma, uno al Museo di Roma e del sesto, portato in un primo tempo nel Museo di Roma, si sono perse le tracce poco dopo il ritrovamento. Uno è del tipo Svizzero, altri due del tipo Rodano, uno del tipo Castione Marchesi e l’ultimo appartiene al tipo Parco dei Monaci.
Il luogo del ritrovamento si trova ad un chilometro dalla terramara del Conventino di Castione Marchesi.
Fonti bibliografiche e sitografiche:
M.Fallini, M.Calidoni, M.C.Basteri, F.Dalcò, C.Rapetti, G.Zanichelli: “Monasteri – Alle radici della città nel territorio di Parma nel Medioevo”. Mup, 2007
D.Soresina: “Enciclopedia Diocesana Fidentina Vol.III – Le parrocchie, Fidenza 1979”
francigenastreetview.wordpress.com
Si ringrazia il signor Germano Meletti per la preziosa collaborazione
Le foto sono tutte di proprietà del sottoscritto: per un loro eventuale utilizzo si chiede semplicemente di citarne la fonte.
Aggiornamento al 4 febbraio 2013
Sei sicuramente tra i pochissimi, da potersi contare con le dita di una mano, ad aver fatto una disamina reale sulla storia di Castione Marchesi, tra l'altro con infarciture di considerazioni assolutamente attendibili. Se me lo concedi vorrei fare un'aggiunta a ciò che hai scritto, la cosa riguarda i sotterranei che portano dall'abbazia al monastero e ramificazioni varie. Proprio di queste ramificazioni vorrei parlarti: sicuramente una parte erano vere e proprie vie di fuga ed altrettanto sicuramente alcune di queste ramificazioni erano fittizie, atte soltanto a confondere eventuali inseguitori. Dall'abbazia, dalle finestrelle del lato sud, poste a livello terra, si vede chiaramente una parte di sotterraneo che punta verso sud ovest, questo dà origine a due mie ipotesi, naturalmente, come tutte le altre con il "mio marchio", tutte da dimostrare ma altrettanto tutte da smentire. Il ramo che apparentemente conduce verso sud ovest, limitato alle immediate vicinanze dell'abbazia, potrebbe essere uno di quegli "inganni" di cui ti dicevo poc'anzi, ma potrebbe anche essere un vero e proprio passaggio con una destinazione ben precisa, eventualmente interrotto e ben cancellato per evitare "rogne", durante la costruzione della vicinissima Autostrada del Sole (metà degli anni '50, quindi quando non c'erano praticamente controlli su cimeli storici ritrovati, bastava nascondere o distruggere). L'ipotetica destinazione di questo sotterraneo sarebbe la località Case Marchesi, un agglomerato di chiara origine medioevale posto nelle immediate vicinanze del Ponte Zappellazzo sul torrente Ongina, sulla strada che da Busseto conduce alla Stazione di Alseno. Qualcuno, assurdamente (sempre a mio avviso) collega le Case dei Marchesi alla vicina Castelnuovo Fogliani, ma questa famiglia, che dà il nome a quest'ultimo paese, era composta da molti conti e non marchesi, quindi ecco che la località Case Marchesi è molto più collegabile con Castione.
A suffragio di questa teoria va anche detto che fino al 1970 le Case dei Marchesi erano sotto la parrocchia di Castione Marchesi ed erano raggiungibili, prima dell'avvento dell'autostrada, dal podere "Portone" con una strada tra due file di gelsi, tutta diritta, che proseguiva anche oltre, arrivando appunto fino a Castelnuovo Fogliani, passando nelle scuderie di Maria Luigia poste vicino a quella costruzione somigliante ad un castello, ma che è solo una grossa villa liberty risalente agli ann i'20 del XX secolo (posta a sud della Via Emilia circa 300 metri ad est del torrente Ongina) quindi molto più probabile un legame tra le famiglie Pallavicino e Fogliani, come potrebbero dimostrare anche gli stemmi che sono stati deposti recentemente dalla struttura del "Portone".
Germano Meletti


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