6 settembre 2018

MISTERI E LEGGENDE DI PIETRA CORVA


di Paolo Panni


Uno sperone di roccia, che svetta tra il verde e i colori del Crinale Appenninico, ad una quota di poco superiore ai 500 metri sul livello del mare, dalle sembianze austere ed inquietante, come generalmente accade per tutte le formazioni ofiolitiche. Rocce scure ed irregolari, queste ultime, che, laddove si sono formate, interrompono in modo brusco, brullo ed improvviso il paesaggio dato dalla catena degli Appennini. Si tratta di sezioni di cresta oceanica e del sottostante mantello che, in epoche remote, si sono sollevate o sovrapposte alla crosta oceanica stessa, fino ad affiorare. Ma la loro presenza cupa e minacciosa, la loro conformazione e i loro colori che le rendono simili alla pelle di un rettile o di qualche misterioso mostro (non a caso la denominazione stessa deriva dai termini greci Ophis e Lithos che significano roccia di serpente) nel tempo hanno creato numerose leggende e sono spesso definite come “pietre del diavolo”. 

Pietra Corva è uno dei punti cruciali dell’antica strada di Maria Longa, percorso dalle origini remote, di notevole importanza storica e naturalistica, che collega Ramiola di Medesano a Mariano di Pellegrino Parmense. Un itinerario di crinale che fu di particolare importanza strategica già in epoca longobarda. La sua frequentazione, a detta di numerosi storici, risale all'epoca preistorica e lo testimoniano alcuni siti archeologici dell'età del bronzo: tra questi proprio Pietra Corva, punto di snodo fondamentale del sentiero, e Groppo Rizzone, che lambisce le pendici del crinale su cui è posta la Maria Longa verso il torrente Ceno. Sul territorio restano anche, non a caso, testimonianze delle antiche popolazioni celtiche e liguri nei toponimi come Ceno e Taro. 

I romani dovettero scontrarsi con queste popolazioni durante il loro processo di espansione, e deportarono intere tribù di celti e liguri lontano da questi territori. Il territorio su cui si trova la strada di Maria Longa apparteneva, nel periodo della dominazione romana a Forum Novum, l’attuale Fornovo Taro. Con i longobardi il percorso assunse grande importanza, come testimonia il suo nome originale Via Longobardorum. 

Dopo i longobardi fu la volta dei Franchi cui fece seguito il cosiddetto periodo degli ordini monastici o dei Vescovi, tra l’877 ed il 1104: a quest’epoca risalgono le località del Pagano, dove è stata tra l’altro rinvenuta la Pietra Giubilare che ricorda il Giubileo del 1300 (il primo della storia) indetto da papa Bonifacio VIII, e dei Rugginelli. Fra i luoghi storici di maggior importanza che arricchiscono il percorso della Maria Longa spicca il castello di Roccalanzona, altro luogo ricco di misteri (e di fascino) di cui Emilia Misteriosa si è già occupata in un altro servizio. 

Se è vero che la Maria Longa rimase un semplice tracciato in terra battuta durante il periodo della denominazione bizantina è altrettanto vero che l’arrivo e l'insediamento in zona dei Longobardi (568-774) fecero acquisire valore a questa strada trasformandola in una importante via di comunicazione posta subito a ridosso delle loro retrovie, difesa dal corso di due fiumi e collegante centri di notevole interesse, anche strategico. Va ricordato che la pianura intorno a Fornovo e le adiacenze della strada di Monte Bardone erano ben difese dai Bizantini il che determinava confini fluttuanti tra i Longobardi e Bizantini stessi a seconda delle sorti dei vari scontri. Per i Longobardi, dunque, la strada di Maria Longa, stabilmente nel loro territorio, divenne di fondamentale importanza. 

Il valore aumentò ancora al tempo di Re Autari (584-590) quando questi occupò l'alta Val Taro e la strada poté servire da collegamento con Bardi-Borgotaro. Il percorso rimase invece al margine delle vicende belliche che si svolsero, sotto il dominio di Liutprando (712-774), soprattutto lungo la vicina via di Monte Bardone. Dopo i Longobardi fu la volta dei Franchi (774-877) cui seguì il periodo cosidetto dei Vescovi o degli Ordini Monastici (877­1104). Di quest'ultimo periodo rimangono impronte in diversi edifici e sopratutto in due xenodochi (ospizi) tutt'ora visibili anche se in parte modificati. Proprio a proposito di istituzioni e realtà monastiche, una delle principali leggende riguardanti la Pietra Corva afferma che in prossimità dello sperone ofiolitico sorgesse in passato un convento di frati che, una notte, vennero assaliti e uccisi da una banda di predoni. Da allora si dice, e le testimonianze in questo senso non mancano, che da allora a più persone sia capitato, specie nelle ore serali, di udire melodie simili a canti e salmodie di monaci ma c’è anche chi garantisce di aver visto processioni di frati fantasma. Realtà o fantasia? Il confine ancora una volta è sottile ed Emilia Misteriosa non si sbilancia, consapevole del fatto che, come vi sono visionari o persone che inventano storie, vi sono anche altre persone che possono fornire ricostruzioni o testimonianze attendibili. Inoltre, se è vero che di questo ipotetico convento, che sarebbe stato distrutto, non è mai stata trovata traccia alcuna, è altrettanto plausibile che lo stesso potesse trovarsi laddove oggi si trovano i resti dei due xenodochi. 

Pietra Corva, per la sua posizione e per la sua singolare forma, potrebbe anche essere stato teatro, in passato, di riti religiosi: ad esempio di quelli che, secondo il latino Floro, inducevano quelle genti (i Liguri Veleiates) «sempre incitate da un dio, a non lasciare capire di ruggine o di muffa le loro armi". 


Un’altra leggenda vuole inoltre che secoli fa la figlia di un conte che abitava il vicino castello di Roccalanzona, si fosse innamorata di un giovanotto di Gallicchiano che portava a pascolare le pecore proprio nei pressi di Pietra Corva. Se al giorno d’oggi una simile relazione non darebbe adito ad alcun problema, un tempo non era consentito un legame tra un povero pastorello e una ragazza di famiglia nobile. Relazioni tra persone di ceti diversi venivano quantomeno osteggiate ed impedite e spesso finivano anche nel sangue. A peggiorare le cose, il fatto che la ragazza apparteneva al casato dei Rossi di San Secondo, eterni nemici dei Pallavicino, feudatari invece di Varano dè Melegari e di Riviano, cui apparteneva Gallicchiano. Secondo la leggenda i due innamorati si sarebbero gettati insieme dalla ripida rupe di Pietra Corva, per sfuggire agli odi domestici e per opporsi a chi voleva in qualsiasi modo dividerli, rimanendo uniti per sempre, oltre la vita. Ecco dunque che, specie nelle notti di luna piena, secondo quanto narra ancora la leggenda si vedrebbero aleggiare in cielo due formazioni biancastre che si poserebbero dolcemente su Pietra Corva, quasi ad abbracciarla o comunque ad unire lì le loro sorti, per poi sparire nel nulla scivolando insieme dietro la nera e minacciosa rupe. Una vicenda, quest’ultima, che chiaramente ha tutto il sapore della leggenda e della fantasia popolare, ma che tuttavia potrebbe celare qualche particolare storico riguardante situazioni avvenute in passato. Come già anticipato ci sono inoltre persone che, nel tempo, raggiungendo il monte, hanno riferito di aver udito voci e lamenti, di aver visto luci e strane formazioni, di aver provato sensazioni inquietanti. Testimonianze che vedono, come sempre, realtà e fantasia mescolarsi tra loro, rendendo quindi misterioso questo lembo di terra del nostro Appennino emiliano. 



FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFICHE: 

G.Conti – Leggende della Val Ceno, Centro Studi Val Ceno, 2015 

T.Marcheselli- Fantasmi e leggende dei castelli parmensi, Umberto Nicoli Editore 






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26 luglio 2018

MONTICELLI D’ONGINA- L’ULTIMA CENA DEL CASTELLO ISPIRO’ LEONARDO DA VINCI?


di Paolo Panni


Il quattrocentesco affresco in cui è rappresentata l’Ultima Cena, conservato nella maestosa rocca Pallavicino Casali di Monticelli d’Ongina, potrebbe avere ispirato il celeberrimo pittore, architetto e scienziato Leonardo Da Vinci per la realizzazione del Cenacolo Vinciano? Un’ipotesi suggestiva e misteriosa, a quanto pare fondata. 


L’Ultima Cena dipinta da Leonardo, conservata nel refettorio del santuario di Santa Maria delle Grazie in Milano, considerata come una delle opere d’arte più importanti, a livello mondiale, di tutti i tempi, potrebbe aver trovato nel dipinto monticellese la sua origine. Non lo diciamo noi, che non ne abbiamo nemmeno la competenza, ma lo afferma il famoso critico d’arte Vittorio Sgarbi che, durante una sua recente conferenza pubblica avvenuta proprio nel popoloso centro della Bassa Piacentina, si è pronunciato in questo senso. Detto da uno della sua levatura culturale, e della sua esperienza in campo artistico, la cosa non può che sollevare notevole e comprensibile curiosità. 

All’interno della rocca si trova la cappellina di Corte, affrescata nel XV secolo da Bonifacio e Benedetto Bembo, celebri pittori lombardi, voluta da Carlo Pallavicino, figlio di Rolando Il Magnifico, una volta nominato vescovo di Lodi, nel 1456 (su pressioni di Francesco Sforza). Già definita da Sgarbi come la “più importante opera italiana di decorazione tardogotica”, era utilizzata dal vescovo Carlo Pallavicino (morto nel 1497 in odore di santità)I come cappella privata. Ad impreziosirla vi è un interessante ciclo di affreschi con figure di angeli, profeti e personaggi dell’epoca, episodi della vita di San Bassiano da Lodi, San Giorgio che uccide il drago, la Vergine con i santi Bernardino da Siena e Bernardo da Chiaravalle, il Calvario, l’Annunciazione, la Deposizione dalla croce, i quattro evangelisti, un ritratto del vescovo Carlo Pallavicino (morto in odore di santità) e, appunto, l’Ultima Cena. 

Quest’ultima potrebbe avere ispirato il celeberrimo pittore, architetto e scienziato Leonardo da Vinci per la successiva realizzazione della sua famosissima Ultima Cena conservata, come anticipato, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie in Milano. Ad avanzare questa affascinante ipotesi è stato appunto Vittorio Sgarbi, celebre critico d’arte. Da evidenziare che l’opera di Leonardo è stata realizzata fra il 1495 e il 1498, quella del Bembo solo pochi anni prima. Un elemento, quindi, che rende plausibile quanto ipotizzato da Sgarbi. Un mistero che ha subito affascinato e attirato diversi studiosi. Tra questi anche Laura Putti, autrice del libro che parla proprio della cappellina del castello, che nelle settimane successive la rivelazione di Sgarbi ha accompagnato sul posto il professor Edoardo Villata, docente alla Cattolica di Milano, autore di diversi studi sul patrimonio artistico del piacentino. 

Nel corso del sopralluogo, al quale hanno partecipato anche altri studiosi ed esperti, la Putti ha mostrato una copia della prima bozza dell’opera di Leonardo; uno schizzo preliminare confrontato con l’affresco di Monticelli. Secondo il professor Villata, la bozza in questione potrebbe dimostrare che Leonardo, prima di dipingere il Cenacolo, potrebbe aver osservato e preso ispirazione da un’opera precedente, una <Ultima Cena> tardo gotica lombarda, probabilmente realizzata all’interno del Ducato di Milano. Non significa quindi che si debba per forza trattare di quella di Monticelli, ma gli elementi comuni ci sono. Come osservato ancora da Sgarbi durante la conferenza, sia la posizione che la disposizione degli apostoli coincidono; stesso discorso per la direzione degli sguardi e il fatto che, a differenza di altre raffigurazioni dell’Ultima Cena, sia in quella di Leonardo da Vinci che in quella dei Bembo gli apostoli sono rappresentati <a due a due>. Sulla bozza di Leonardo sono indicati anche i nomi e anche su questo potrebbe aver preso spunto da un’opera preesistente. Nell’affresco dei Bembo gli apostoli sono rappresentati con le aureole, ma è opinione di diversi studiosi che un tempo vi fossero invece proprio i nomi, poi tolti. Nel dipinto di Monticelli, su sfondo verde, spicca la tavola imbandita per la cena attorno alla quale si trovano Cristo e gli Apostoli, tranne Giuda, il traditore, raffigurato dalla parte opposta della tavola, separato quindi da tutti gli altri. Gli apostoli sono rappresentati mentre conversano amabilmente tra loro mentre San Giovanni posa il suo capo sul petto di Gesù. Inutile dire che sulla figura di San Giovanni, l’apostolo prediletto da Gesù, si sprecano le posizioni, specie dopo l’uscita del celebre romanzo “Il Codice da Vinci” di Dan Brown che ha generato fiumi di parole circa la possibile presenza di Maria Maddalena, individuata come “compagna” di Gesù, nella figura di San Giovanni rappresentato, nel capolavoro di Leonardo , così come nell’affresco di Monticelli, con tratti apparentemente femminili e il volto efebico. Va però anche ricordato che la libertà romanzesca permette sempre ogni possibili invenzione e interpretazione ma, nel caso di Leonardo Da Vinci, va anche considerato che questi, nelle sue opere pittoriche, usa spesso linguaggi ermetici, occulti e misteriosi ed era ampiamente a conoscenza delle tecniche esoteriche, specie quelle legate al culto di Giovanni Battista e della Maddalena. Di esoterismo era appassionato anche Bonifacio Bembo, che col fratello Benedetto dipinse la cappella di Monticelli. Altro aspetto che può dunque legare tanto le due figure di artisti quanto le due opere, rendendo la vicenda complessa, curiosa, affascinante ed enigmatica. Anche Bonifacio Bembo, insieme a Benedetto, nella realizzazione dei loro affreschi potrebbero avere utilizzato linguaggi ermetici ed esoterici? 

Una domanda che va ad aumentare il “bagaglio” di misteri di un castello che, come già riportato in un reportage di alcuni anni fa di Emilia Misteriosa, è famoso anche per altri enigmi che riguardano la cosiddetta presenza del celebre “pozzo del taglio”, di un tunnel nascosto che collegava maniero e chiesa collegiata e del probabile fantasma di Giuseppina, giovane ragazza assassinata nel 1872 da un suo pretendente, Giuseppe Modesti, con la sola colpa di averlo rifiutato. L’uomo, oltretutto, riuscì ad evitare la pena capitale dopo una rocambolesca fuga dal carcere di Parma, per poi diventare un ufficiale dell’esercito francese. 

Tornando alla celeberrima figura di Leonardo Da Vinci, ad avvallare la possibilità che possa aver preso ispirazione a Monticelli d’Ongina, ci sono poi i suoi legami col territorio piacentino. E’ noto, ad esempio, che, da studioso e profondo conoscitore della natura e del Creato, eseguì importanti studi sull’antico mare che tra 5 e circa 2 milioni di anni fa occupava la Pianura Padana. In particolare si soffermò sui resti fossili, da lui definiti “njchi”, specie quelli del Piacenziano ritrovati nei pressi di Castell’Arquato e Lugagnano Val d’Arda. Per primo ne riconobbe l’origine organica e studiò le conchiglie raccolte nel piacentino mentre si trovava a Milano, impegnato a lavorare alla statua equestre di Francesco Sforza e li citò nel suo famosissimo Codice Leicester. Senza dimenticare poi il suo possibile legame con Bobbio. Infatti alcuni studiosi, una su tutti Carla Glori, sostengono che il paesaggio rappresentato ne “La Gioconda” sarebbe quello di Bobbio. Leonardo potrebbe averlo notato da una finestra del castello Malaspina Dal Verme. Inoltre il ponte che compare nella parte destra del dipinto sarebbe quello “del Diavolo” o “Ponte Gobbo”, sempre di Bobbio. Inoltre recenti approfondimenti hanno permesso di appurare che nel paesaggio reale della Val Trebbia si possono individuare ben dodici coordinate corrispondenti ad altrettanti elementi raffigurati nel quadro. 

C’è infine chi sostiene che allievi di Leonardo Da Vinci, se non addirittura lo stesso Leonardo, possano aver in parte lavorato alla Cappella Pallavicino della chiesa dell’Annunziata di Cortemaggiore o ai monumenti sepolcrali della nobile famiglia della basilica di San Lorenzo, sempre a Cortemaggiore. Ma questa ipotesi sembra essere decisamente remota. 

Resta tuttavia il fatto che il grande scienziato, pittore, architetto e inventore, unanimemente considerato come uno dei più grandi geni dell’umanità aveva probabili legami con Piacenza e il suo territorio (del resto la stessa vicinanza con Milano dove ha a lungo lavorato lo avvallano) e, quindi, non è affatto escluso che il “gioiello” gelosamente custodito nella rocca di Monticelli d’Ongina sia stato d’ispirazione per una delle opere d’arte più famose al mondo, anche per i suoi contenuti enigmatici. 




FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFICHE 



https://www.stilearte.it › Aneddoti sull'arte 










A.Gervasoni, “La Cappellina di Palazzo”, Banca di Piacenza, 1993 



Per le foto della Cappella si ringraziano Elisa Calamari e don Stefano Bianchi. L’immagine di Leonardo è tratta dal sito focus.it. Le foto del castello sono dell’associazione Emilia Misteriosa e dell’autore. Per un loro utilizzo è sufficiente citarne la fonte. 

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